ARG - La pesca alla fine del mondo



Word and photo di Gian Luigi Zoli
Tempo di lettura: 30 minuti


   Febbraio 2010


Argentina 2010
Come altre terre ai confini del mondo - Alaska, Siberia, Australia - anche l’estremo lembo del continente sudamericano ha avuto una storia tanto breve quanto violenta e travagliata. Scoperte da Magellano nel Cinquecento queste terre desolate furono ignorate per secoli dal mondo occidentale, abitate solo da fiere popolazioni indigene ferme alla preistoria. Gli equipaggi dei bastimenti costretti a doppiarne l’ultima propaggine, il famigerato Capo Horn, nella rotta di ritorno dalle Indie Orientali all’ Europa si tenevano ben alla larga e solo pochi esploratori si avventurarono fin qui via terra.
Fu soltanto nella seconda metà dell’Ottocento che la Patagonia Meridionale e la Terra del Fuoco furono teatro di una colonizzazione organizzata, quella che il governo Argentino chiamò pomposamente “Conquista del Deserto”, cercando di spacciarla come opera di civilizzazione, e che di fatto fu solo un feroce e calcolato esproprio di terra ai danni dei nativi e a favore delle grandi compagnie della lana in perenne ricerca di nuovi pascoli.
A completare il saccheggio, sbarcarono dai quattro angoli del mondo cacciatori di pelli, cercatori d’oro, contrabbandieri, ex galeotti e reietti di ogni risma; un vero esercito dalle mille bandiere, composto di gente in cerca di fortune alle quali nella maggioranza dei casi non era predestinata e che ha lasciato dietro di se’ poche tracce, a parte una lunga scia di sangue e violenza.
Le conseguenze di tanta fame di conquista le pagarono come sempre le popolazioni native, che finirono vittime di uno dei piu’ rapidi e sistematici genocidi mai perpetrati nella storia moderna; Ona, Yamana, Alakaluf, sono nomi di popoli che furono cancellati nel giro di pochi decenni e di cui rimane memoria solo in poche, sfocate fotografie in bianco e nero.

Il Canale di Beagle, che divide la Terra del Fuoco dall’Isola di Navarino, la vera “fine del mondo”

Dopo tanta violenza, una relativa pace sembra essere tornata in queste terre remote i cui abitanti godono al giorno d’oggi di un relativo benessere, sconosciuto in molte altre parti del continente sudamericano, grazie ad abbondanti giacimenti minerari e petroliferi, all’allevamento e al turismo.
A pensarci bene però, qualche ossessionato emulo degli avventurieri di inizio secolo sbarca ancora... non piu’ in cerca di oro o pelli di foca ma delle trote piu’ grandi del mondo, eredità di un gentiluomo inglese che nel 1935 portò qui le prime uova di brown trout dal Cile.
Fiumi come il Rio Gallegos, nel sud della provincia patagonica di Santa Cruz e il Rio Grande nel nord della Terra del Fuoco sono infatti le acque dove le chances di finire abbracciati a una trota di mare grande come un cane di media taglia sono le maggiori al mondo.
Trote di mare ce ne sono in altri fiumi che sfociano nell’Atlantico, giu’ fino a Ushuaia al confine meridionale della Terra del Fuoco e ancora piu’ a sud, sull’Isola di Navarino in territorio cileno. Ma è nei due fiumi che ho menzionato prima che ci sono le risalite piu’ costanti e massicce, in assoluto le piu’ imponenti del mondo in quanto a numero e taglia dei pesci.
Ma attenzione...le trote ci sono e anche tante, prenderle però è tutta un’altra faccenda e le difficoltà sono molte. La prima è arrivare all’acqua. Qui infatti i fiumi non sono accessibili come in Nord America, o come nella piu’ civilizzata e frequentata Patagonia Settentrionale.
Sia il Gallegos che il Grande scorrono in località remote e quasi interamente all’ interno di grandi estancias per l’allevamento delle pecore, che a fronte di proficue entrate cedono i diritti di pesca a pochi lodge a 5 stelle a loro volte collegati alle grandi agenzie di pesca americane ed europee.
Le zone mediane dei due fiumi, quelle dove il corso ha la larghezza ottimale per poter essere “rastrellato” a dovere con le massime possibilità di far passare la mosca davanti al naso delle trote di mare, sono interamente recintate e di fatto inaccessibili senza permesso.
Per bagnare la mosca in questi tratti di fiume bisogna sganciare una cifra che, senza considerare extra, mance e cicchettini vari, va dai mille bigliettoni in su per ogni giorno di pesca (viaggo escluso, si intende). Prendere o lasciare.

Il Rio Gallegos nel tratto medio basso, alle porte dell’ omonima città

Piu’ a valle i fiumi sono mediamente piu’ accessibili, le trote sono altrettanto abbondanti, ma il corso è molto piu’ ampio, e trovare i pesci diventa una faccenda complicata senza una millimetrica conoscenza dell’alveo.
In alto, verso la cordigliera Andina al confine con il Cile, l’accessibilità è buona ma la stagione di pesca è corta e imprevedibile perche’ solo una parte delle trote arriva fin quassu’ e per farlo impiega molto tempo. E può capitare, come è successo a me, di farsi 8 ore di fuoristrada per pescare in un tratto di fiume bellissimo ma con meno trote, fatte le dovute proporzioni, che nei tratti liberi del Reno sotto Porretta Terme.
Per questi motivi, il 99% dei pescatori stanieri che hanno la fortuna di pescare il Rio Gallegos e il Rio Grande appartengono alla ristretta cerchia di facoltosi per i quali mille dollari al giorno per pescare sono una bazzecola.
Le guide indipendenti da queste parti sono molto difficili da trovare perche’ il flusso di pescatori “fai da te” è minimo e non sufficiente per mantenere l’attività.
I bravi pescatori qui, lavorano tutti per i lodges. Ma ovviamente, ci sono sempre le eccezioni e con un po’ di pazienza spirito di adattamento si riesce a pescare anche questi fiumi in “semilibertà e senza dovere prenotare il lodge un anno prima (per non parlare dei 5-6000 dollari...)
Almeno, io sono riuscito a farlo nel Rio Gallegos, e, anche se per il rotto della cuffia, ho preso una delle trote della mia vita. Grazie soprattutto alla bravura e alla monastica dedizione alla pesca di Hector, una delle migliori guide con cui abbia avuto la fortuna di pescare.
Permettetemi una piccola digressione, se non altro per raccontare un’altra memorabile avventura di pesca argentina.
Ho conosciuto Hector sulle sponde del Lago Strobel, uno specchio d’acqua sperduto in una desolata landa di rocce lunari a un giorno di fuoristrada dal primo segno di civiltà, nel centro della provincia patagonica di Santa Cruz, diventato in pochi anni famoso tra una ristretta cerchia di esaltati per le sue trote iridee di proporzioni mostruose.
Hector faceva la guida per il piccolo accampamento di proprietà di un’agenzia svedese che ha in gestione la pesca nella sponda piu’ pescosa del lago. Per due giorni non c’erano altri pescatori al campo e così ho potuto fare amicizia con questo grandissimo pescatore, gentile e sensibile come nella natura dei veri argentini e perdutamente innamorato della sua terra desolata e dei suoi bellissimi fiumi.
La pesca nel lago Strobel fu al di sopra di ogni aspettativa; nonostante Hector giurasse che la pesca era “bastante flaca”, cioè piuttosto scarsa, per via del caldo e dei livelli d’acqua molto bassi, presi piu’ grosse trote in quei due giorni e mezzo che in tutta la mia carriera.

Uno dei missili del Lago Strobel in fase di lancio

Pesci dai 3 ai 5 Kg tozzi come carassi, lucidi come fossero appena usciti da un bagno di cromatura e caricati al fulmicotone; si ammassavano alla foce di un piccolo ruscello, unico immissario del lago, per risalirlo e andare a fregare qualche chilometro piu’ a monte e si gettavano con suicida determinazione su ogni genere di imitazione gli fosse proposta – fosse essa secca, sommersa, “semiaffogata” o quant’altro.

Arcoiris del lago Strobel in abito matrimoniale

Al lago Strobel pescai una media di diciotto ore al giorno dormendone sei o sette in totale, presi un principio di ipotermia per essere stato a mollo fino alle undici di sera nell’acqua a 6° con i waders bucati e mangiai assieme a Hector e al cuoco Alberto la quantita’ di carne prevista per otto ospiti, annaffiata da una equivalente quantità di un sanguigno Malbec in grado di far stramazzare i tori.
Inutile dire che nelle poche ore in cui non si pescava si parlava di pesca e Hector mi raccontò con dovizia di particolari del “suo” fiume, il Rio Gallegos, e delle sue poderose risalite di “plateadas”.
Quando non lavorava per i lodges Hector aveva iniziato a fare da guida in proprio per i pochi avventurosi pescatori fai da te che arrivavano fino a queste latitudini estreme. Era un opportunità troppo ghiotta e mi ripromisi di tornare l’anno dopo per dedicare una settimana alle trote di mare del Gallegos.
E così l’anno seguente ai primi di febbraio atterrai all’aeroporto di Rio Gallegos, cinque ore di volo, quattromilacinquecento chilometri e diverse fasce climatiche di distanza dalla torrida Buenos Aires.
Il tempo era quanto di peggio ci si potesse aspettare; cielo grigio piombo, temperature invernali e pioggia fitta. Sembrava di essere a Voghera in Novembre... Un vero shock per me che avevo appena passato un paio di settimane a vagabondare tra gli aridi deserti di alta quota tra Cile e Argentina del Nord.
Hector mi confermò che nonostante questo fosse di solito il miglior periodo della breve estate australe, non aveva fatto altro che piovere da un mese e, cosa piu’ grave di tutte, il Gallegos scorreva gonfio di acqua di scioglimento dei ghiacciai della Cordillera, gelido e impescabile per almeno altri due giorni.
Passammo pertanto al “piano B”, cioè pesca leggera in una serie di piccoli e suggestivi chalk stream sperduti nella pampa, tra guanachi e branchi di cavalli selvaggi; veri e propri rigagnoli che per brevi tratti si aprivano in pozze piu’ ampie per perdersi di nuovo in mille rivoli tra i prati. Alcuni erano popolati esclusivamente da salmerini, o “Fontinalis” come li chiamano gli argentini, e altri da “Marrones”, le fario stanziali.

Vento e salmerini...

I primi due giorni tirò un vento infame che rimbombava nel cervello e trasformava semplici operazioni come cambiare un finale o una mosca in un’interminabile e frustrante serie di gesti inconsulti.
Gli scenari però erano spettacolari, con le grandi nuvole che si rincorrevano a velocità folle aprendosi all’improvviso in squarci di cielo blu elettrico, e le praterie di grigia erba “coiron” che spazzate dal vento riflettevano il sole come onde di un oceano metallico.
I pesci poi, collaboravano in pieno; lanciando nella tormenta dei semplici wolly bugger prendemmo un sacco di bellissimi salmerini tra cui un paio di grassi pesci oltre il chilo e mezzo che lottarono lenti e cocciuti come carpe prima di farsi spiaggiare.
Poi fu la volta delle marrones del Gallegos Chico, un incantevole spring creek che scorreva in una valle in puro stile “Casa nella Prateria”. Quel giorno il vento era calato di colpo, il cielo era blu cobalto e l’aria tiepida. Dopo due giorni passsati nel rombo esasperante del “pampero” furono momenti di puro idillio.

Un raro momento di calma assoluta sul Gallegos Chico

Le trote, forse ancora infreddolite per il maltempo dei giorni precedenti se ne stavano sul fondo delle buche per niente interessate a quello che succedeva in superfice e dopo un po’ di tentativi infruttuosi a secca, ne approfittai per mostrare a Hector un po’ di pesca ‘di fino’ con ninfa e indicatore (tecnica decisamente sconosciuta e queste latitudini). La scelta si rivelò quella giusta e prendemmo delle meravigliose “marrones” color bronzo, dalle pinne grandi come quelle di pesci d’acquario. Piu’ forti di un bufalo, si arrotolavano in aria e delfinavano come lampughe prima di arrendersi. Valevano da sole l’intero viaggio.

Marron patagonica in acrobazia e posa

Ma dopo tre giorni, la febbre della trota di mare, vero motivo per cui ero arrivato in quelle lande dimenticate da Dio, cominciò a salire. Nei giorni precedenti avevamo già provato un paio di volte, pescando nei tratti di fiume piu’ accessibili, ma avevamo desistito dopo un paio d’ore sentita la temperatura gelida dell’acqua e non avendo visto segno di attività.
Il primo fugace incontro con le grandi trote di mare lo ebbi la terza sera, sotto il cielo acceso nelle mille tonalità di rosa e violetto di un malinconico tramonto australe.
Di ritorno dal Gallegos Chico ci eravamo fermati in uno dei pochissimi tratti mediani del Rio accessibili direttamente dalla strada. Mentre cercavo di distendere la coda # 9 oltre i miei modesti limiti, una ventina di metri piu’ in là uno o piu’ pesci di dimensioni mostruose “gobbavano” a intervalli regolari facendomi schiumare di rabbia.

Il Rio Gallegos all’altezza dell‘ Hotel Bellavista

Cercai di avvicinarmi ma non c’era niente da fare, ero già con l’acqua alle ascelle, sul limitare di un salto del fondale, e la prospettiva di finire in acqua per essere ripescato alle isole Falkland (pardon, Malvinas...) mi fece desistere.
Il giorno dopo decidemmo di cercare le trote piu’ in alto, ai piedi della Cordillera dove il Gallegos prende origine dai suoi due rami, il Penitente e il Rubens che a loro volta nascono in territorio Cileno.
I guardiapesca amici di Hector dicevano che le plateadas erano già arrivate e che giorni prima ne era stata presa una da 25 libbre...visto che loro erano in ferie ci offrirono ospitalità nei loro confortevoli alloggi, costituiti da un prefabbricato da cantiere e da una vecchia corriera abbandonata, ribattezzata “Ginebron” (Ubriacona) in omaggio a chissà quali remote e solitarie baldorie alcoliche.

Il “Ginebron”, Fishing Lodge a 5 stelle...


Una delle belle Marrones stanziali del Rio Penitente


Il suggestivo scenario del Rio Penitente

Il rio Penitente era splendido. Scorreva in una pianura dolce e ondulata, le sponde orlate di alberi piegati dal vento e i contrafforti della Cordigliera che si stagliavano all’orizzonte. Vi prendemmo diverse belle “marrones” ma non riuscimmo a vedere traccia di plateadas e dopo un giorno e mezzo di tentativi tornammo pertanto verso valle, ormai in preda a una certa angoscia visto che rimaneva solo un giorno di pesca. Sulla via del ritorno ci fermammo in vari punti del Gallegos ma senza fortuna. Il vento aveva ricominciato a soffiare cattivo e all’orizzonte avanzava un fronte nero come la pece che non faceva presagire nulla di buono per l’indomani. Come consolazione, Hector si diresse verso un mini-affluente del fiume principale, un rigagnolo insignificante che solo in punto formava un’unica, grande pozza. Al secondo strip del primo lancio che feci nella buca una bestiaccia di marron azzannò il piccolissimo streamer che avevo lanciato con la #3 e mi fece penare venti minuti prima di arrendersi. Un’altra bella consolazione per l’assoluta mancanza di plateadas.

Un gran pedasso de trucha !

Un po’ rincuorati dall’ultima bella cattura, rientrammo alla confortevole “cabana” di Hector dove negli ultimi istanti di lucidità dopo la leggera cenetta cucinata dalla suocera (sufficiente come ogni sera per una squadra di carpentieri in trasferta) facemmo i piani per l’indomani, ultimo giorno.
Decidemmo di cambiare strategia e di dedicare le nostre attenzioni alla parte bassa del fiume, sperando in una risalita “fresca” dopo le piogge. La mattina però si presentò grigia e desolata, di quelle che ti buttano il morale sotto le scarpe e ti fanno venire voglia di startene davanti al fuoco con un bel libro. Il cielo era di piombo e la pampa era ammantata di un grigiore triste, da periferia industriale.
Il Gallegos era anche lui livido e scorreva veloce, apparentemente senza vita. Facemmo una lunghissima camminata sotto una pioggerella tanto sottile quanto fitta e maligna e quando arrivammo al fiume eravamo già fradici. Montate le canne iniziammo a sondare un po’ scoraggiati una lunga serie di pool, correnti e bracci laterali. Passarono un paio d’ore buone senza che vedessimo alcun segno di vita, poi in una lunga, uniforme corrente, dove ci eravamo fermati per uno spuntino trovammo le trote.
Tante trote, e grandi. Se ne stavano ferme a riposarsi per la prossima risalita, disposte sotto un banco di alghe proprio contro la sponda opposta. Non potevamo vederle ma la loro presenza e posizione era ovvia dato che a intervalli regolari l’acqua si apriva in gorghi larghi come la bocca di un secchio e comparivano delle schiene larghe un palmo.
Erano pesci carognoni proprio come quelli nostrani, ben posizionati oltre la corrente principale per far venire una crisi di nervi... per fargli arrivare la mosca davanti al naso bisognava lanciare lungo e ben curvo a valle, decisamente al limite della mia portata, di modo che la mosca entrasse in pesca subito senza dragare.
Hector con la sua “due mani” controllava la sua coda intermedia con precisione millimetrica rastrellando ogni centimetro buono del fiume, mentre io ansimavo e sacramentavo riuscendo a fare un passaggio decente ogni cinque. Cambiammo mosche varie volte, scendendo di taglia secondo una consolidata strategia da sea trout, passando dalle grosse yuk bug su amo #6 fino a ninfe tipo stonefly sul 12/14.

Hector con una bella plateada di media taglia

Dopo un paio d’ore senza successo le trote entrarono in attività e Hector agganciò e salpò velocemente due bei pesci sui 4-5 Kg, freschissimi di risalita. Io invece continuavo a collezionare una buona dose di frustrazione e qualche trotella alla prima esperienza fluviale, pesciotti da trentacinque centimetri o poco piu’.
Durante uno degli ennesimi passaggi, con la coda non ancora in perfetta tensione sentii il solito paio di morsetti, ferrai senza troppa convinzione pensando a un’altra trotella e vidi invece l’acqua esplodere in una specie di fungo atomico mentre una trota di dimensioni surreali uscì dall’acqua in verticale, scuotendo la testa come un Marlin. Rimasi lì, “come quelli della Mascherpa” avrebbe detto un milanese d’altri tempi, mentre la coda mi schizzava dalle mani e il pesce si dirigeva delfinando verso la fine della piana.

Strike, salto e fuga...

Con la frizione troppo aperta, il pesce prese coda con una velocità impressionante puntando verso la rapida alla fine della pool. Quando me ne accorsi e strinsi la leva la trota era già a oltre cento metri, senza nessuna intenzione di fermarsi. Iniziai a correre come una lepre sapendo bene che con così tanto filo fuori dal mulinello, una volta che il pesce fosse entrato nel pieno della corrente il finale non avrebbe retto. Il brutto era che non potevo proseguire verso valle perchè la sponda era ostruita e l’unica cosa da fare era attraversare in fretta prima di perdere completamente il controllo della situazione.
Una parola...davanti a me si stendeva una lama di acqua grigio acciaio che filava via veloce e uniforme per poi incresparsi in una lunga rapida un centinaio di metri piu’ a valle. Stimai una profondità di un metro ma, il fondale non si vedeva per cui per conto mio avrebbe potuto anche essere la Fossa delle Marianne.
Mi voltai verso Hector e vidi che anche lui mi faceva cenno di guadare; “Crusa el rio, però mui cuidado!” mi grido’ e io mi ritrovai nel mezzo del fiume con la sua fredda massa compatta che mi spostava inesorabile a valle mentre cercavo di avanzare verso la sponda opposta...... facevo un metro in avanti e uno verso valle il tutto con 100 metri di backing fuori dal mulinello e il pesce della mia vita attaccato in fondo che faceva il diavolo a quattro.
Non furono momenti rilassanti, ma quasi trentacinque anni passati a mollo in ogni genere di ambiente liquido mi hanno conferito una certa dimestichezza col guado e arrivai dall’altra parte piu’ rapido di un lagunare in missione.
Ora avevo la trota dal lato giusto e la guidai lungo la rapida fino a una grande e tranquilla buca, dove si sfogò per bene con fughe e capriole fino a farsi condurre verso riva docile come un cane al guinzaglio.
Mentre la tensione si scioglieva, mi resi conto di aver tra le braccia un pesce che poteva superare i 10 Kg.

Il motivo di tanto soffrire...

Una splendida femmina appena entrata dal mare, pelle blu verde, un filo di trucco turchese intorno agli occhi e un vestito di squame argentate come lamè... Uno dei pesci piu’ belli della mia vita che valeva da solo tutti gli sforzi e le frustrazioni dell’intensa settimana che avevamo vissuto.

Ahi que pelea !


Due pesci cosi fanno una discreta giornata...

Pescammo ancora fino a dopo al tramonto ed Hector agganciò in scioltezza un altro pesce quasi uguale al mio. Lo portò a riva in pochi minuti e praticamente senza fare un passo, facendomi vergognare un po’ per il mio precedente, fantozziano recupero. Poi venne il momento di chiudere le canne e iniziare la lunga camminata di rientro.
La stessa notte ero sul volo di rientro per Buenos Aires, la testa un po’ confusa per l’interminabile serie di brindisi durante la cena appena terminata, a rivivere sensazioni e immagini uniche che la selvaggia, desolata e bellissima “Fine del Mondo” mi aveva regalato.
Chi volesse vivere un’esperienza di pesca intensa e vera, lontana anni luce dalle atmosfera un po’ snob dei grandi lodge ma con chance di cattura del tutto paragonabili, puo’ contattare Hector ai seguenti indirizzi.
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Hector fa base a Rio Gallegos, citta’ petrolifera che ha ben poco da offrire a parte le trote, ma nella regione di Santa Cruz si trovano alcune dei luoghi piu’ spettacolari del continente Sud Americano.
Ci sono diversi voli giornalieri da Buenos Aires a Rio Gallegos ma attenzione perchè i prezzi possono arrivare a livelli molto alti per cui è bene prenotarli con quanto piu’ anticipo possibile.
Da Rio Gallegos si possono raggiungere in aereo, autobus o auto a noleggio Ushuaia in Terra del Fuoco, El Calafate (base per la visita al ghiacciaio Perito Moreno) e, in territorio Cileno, lo spettacolare parco nazionale del Torres Del Paine (i cui fiumi ospitano una buona risalita di salmoni chinook)
Per quanto riguarda le possibilità di pesca, oltre al Gallegos e affluenti (cui bisogna dedicare minimo 5 o 6 giorni) è sicuramente da considerare il remoto Lago Strobel, conosciuto anche come Jurassic Lake, una delle migliori “fisheries” al mondo per le grandi trote iridee.
Il problema dello Strobel è arrivarci visto che ci vogliono dalle 8 alle 10 ore di marcia in fuoristrada su un micidiale terreno in grado di spaccare la schiena a un mulo. Ci sono un paio di accampamenti di pesca al lago Strobel ed Hector puo’ organizzare una spedizione...ma decisamente non è un’esperienza per chi soffre di lombalgia!
Piu’ a Nord, nella provincia di Santa Cruz, scorre il fiume omonimo, un poderoso corso d’acqua che è l’unico al mondo a sfociare nell’Atlantico e a ospitare una risalita di Steel Head.
La pesca nel Santa Cruz però non è facile per via delle grandi dimensioni e per le condizioni di acqua perennemente velata, e la frequenza di catture non è alta. Lo stesso vale per i fiumi da salmoni del versante cileno, primo fra tutti il Rio Serrano. Sono acque imponenti che scorrono per buona parte dell’estate gonfie per lo scioglimento dei ghiacciai, impescabili a mosca e appannaggio esclusivo dei pescatori a spinning. In genere c’è una breve finestra temporale in dicembre durante la quale le acque sono piu’ basse e ci sono buone probabilità di finire attaccati a un chinook grande come un vitello.
L’altro grande fiume da trote di mare è il blasonatissimo Rio Grande, nella parte nord della Terra del Fuoco. Piu’ piccolo del Gallegos e quindi relativamente piu’ facile da pescare, è però forse ancora piu’ recintato del precedente, rimanendo per gan parte esclusivo appannaggio dei grandi lodges. Non ho avuto la possibilità di esplorarlo ma mi sono ripromesso di farlo nel prossimo viaggio, alla ricerca di vie alternative di spiaggiare qualcuna delle sue leggendarie trote.
Piu’ a Sud in Terra del Fuoco ci sono altri fiumi che ospitano risalite di “sea run” ma nessuno si avvicina al Gallegos e al Grande come potenzialità.
Nella zona di Ushuaia ci sono pero’ eccellenti possibilità di pesca alle marrones e ai fontinalis stanziali che vivono nei grandi laghi di origine glaciale quali il Fagnano e l’Escondido.
L’estate australe dura da dicembre a fine marzo e le sea run iniziano a entrare nei fiumi a inizio dicembre ma i periodi migliori, almeno per il Gallegos, vanno dalla metà di gennaio alla metà di marzo.
Il mese di febbraio è di solito quello con il tempo piu’ stabile e meno vento ma per contro i livelli del fiume possono abbassarsi molto, cosa non gradita alle trote che riducono l’attività alle ore dell’alba e del crepuscolo.
Per quanto riguarda l’attrezzatura, la faccenda è abbastanza semplice : canne 9 piedi minimo, per coda 6 fino all’8-9. La #6 ve bene per le giornate di calma e per i livelli del fiume piu’ bassi, quando si scende con la taglia delle mosche fino al 14.
La maggior parte del tempo però si pesca con una 8/9. Per chi la sa usare, una buona due mani dai 13 ai 15 piedi è altamente raccomandata in quanto oltre ad aumentare sensibilmente il raggio di azione permette di lanciare in condizioni di vento alle quali qualsiasi forma di back cast sarebbe impossibile.
Con la coda 6 si possono coprire anche i chalk strams minori, anche se in queste acque in condizioni di calma una coda 4 o addirittura una 3 possono regalare, su pesci da uno a due chilogrammi, momenti di puro godimento.
Code floating per le acque minori e anche per le sea run in condizione di acque basse.
Un’intermedia e un paio di affondanti a diversa densità permetteranno di coprire tutte le possibili condizioni di acqua.
Sulle mosche si puo’ aprire un dibattito... bisogna ricordare che le trote di mare non si alimentano nel fiume ma attaccano per riflesso quindi non esistono regole precise. Wolly Bugger, Yuk-Bug, Bitch Creek e ninfe classiche tipo Prince sono alcuni tra i dressing che vanno per la maggiore. Colori scuri, nero in primis, e abbondanza di gambette di gomma che sono un vero e proprio “must” nei dressing locali. Per le trote stanziali, streamer classici in vari colori incluso il bianco e il rosa, ninfe dall’8 al 16-18 e secche da caccia.
Spero di essere riuscito in queste pagine a trasmettere un po’ delle sensazioni che ho vissuto in una delle esperienze di pesca piu’ intense della mia bislacca carriera di pescatore e vagabondo e di aver suscitato, almeno in qualche lettore, quel senso di incontenibile irrequietezza che è la vera e propria molla di ogni vera avventura.
Chi volesse saperne di piu’ puo’ contattarmi sul forum.

Tight Lines !





Gian Luigi Zoli



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