Storiella

18/11/05 di Massimo Arcaro


Camminavano mano nella mano, tenendosi sul ciglio della nuova iperstrada a sei corsie, che una amministrazione sensibile ai problemi dei giovani e allo sviluppo dello sport, aveva fatto costruire in occasione dei campionati europei di calcetto a 3 su campo insaponato.

Dall’altra parte scorreva un triste rivolo, grigio e maleodorante, completamente arginato e con il fondo cementato.
L’acqua, se così si può definire quella sorta di liquido denso che passava fra gli argini di cemento, viaggiava silenziosa alla stessa velocità e in corrispondenza dei piccoli salti, anche quelli costruiti artificialmente, formava una densa schiuma bianca, dalla quale si sprigionava un evidente odore di lavanda, purtroppo causato dalla forte presenza di detersivi.

Il papà non sapeva se era meglio tenere la bambina alla sua sinistra, al riparo dagli autotreni a dodici assi e dai bolidi super veloci ed inquinanti, o se tenerla alla sua destra, dove i profumi provenienti dal fiumiciattolo, davano uno sgradevole senso di nausea, peggiore di quello dei fast food più globalizzati.

I due camminavano spediti e pareva che non vedessero l’ora di lasciare quel desolato paesaggio urbano. La loro andatura era spedita e si differenziava per portamento e postura da quella degli affannati agenti di borsa, che ingobbiti e sbuffanti si affannavano a raggiungere al più presto i loro uffici per raccogliere le prime informazioni provenienti da Wall Street.

“Stiamo per arrivare” disse improvvisamente il papà, giunto in prossimità dell’unico salto naturale che era rimasto al triste rivolo puzzone. Era una piccola cascata, alta non più di due metri, sovrastata dal cavalcavia dell’iperstrada comunale.
Un vecchio albero, un salice, era sopravvissuto miracolosamente in questo ambiente ostile, perché le sue radici avevano trovato spazio per diffondersi fra il cemento del canale e l’asfalto della carreggiata.
Come una persona anziana, l’albero era ormai un po’ ingobbito e anche per trovare un po’ di luce naturale, si era chinato verso la cascata, nascondendo la zona in cui cadeva l’acqua.

Il papà strinse un po’ più forte la mano della bambina e insieme si avviarono verso le fronde del salice, che nascondevano un piccolo passaggio scuro, che la natura aveva costruito nel corso dei secoli. “Cerca di non bagnarti con quest’acqua, potrebbero rimanerti dei segni sulla pelle” disse il papà alla bambina, poi insieme entrarono in quella sorta di cunicolo nella roccia.
L’angusta galleria era buia, ma sul fondo si intravedeva uno spiraglio di luce, che consentiva a malapena di vedere dove si posavano i piedi.

Qualche decina di metri e i due furono all’esterno del passaggio, dove sorgeva una valle meravigliosa, quasi pianeggiante e solcata da un fiume vero! Qua tutto era diverso, il corso d’acqua era quasi trasparente con leggere sfumature verdi, nessun argine in cemento ma solo qualche albero e delle cannette che facevano capolino dalle sponde e a fianco del fiume nessuna strada, solo un sentiero attraversava la valle verdeggiante, nella quale pascolavano tranquille mucche da latte bianche e rosse.

La bambina cambiò subito atteggiamento sfoderando quel sorriso disarmante che solo i bimbi sanno fare e abbandonata la mano del papà si mise a sgambettare come una capretta la prima volta che esce dal recinto.
Mise poi una mano in tasca, dove custodiva alcuni elastici e fermagli colorati per i capelli, una castagna d’india utile a prevenire il raffreddore, alcune pietre colorate che aveva trovato vicino ad un laghetto di montagna e finalmente tirò fuori il suo minuscolo orsetto di peluche da viaggio, come per fargli vedere quel posto incantato.

Anche il papà aveva cambiato espressione, il suo passo adesso era lento e guardava il fiume come se stesse cercando qualcosa, anche lui con un aria sorridente e rilassata. Dalla tasca della giacca del papà uscì un sottile “bip”, era il cellulare che misteriosamente aveva esalato il suo ultimo respiro e aveva improvvisamente smesso di dare segni di vita tecnologica.

Era una bella giornata di inizio autunno e i due camminarono ancora un po’ lungo le sponde del fiume, prima di fermarsi e riposare un momento.
Per consumare la colazione avevano scelto un posto che ricordava i dipinti degli impressionisti francesi, sotto un melo a poche decine di metri dal corso d’acqua.

Il papà si tolse lo zaino e tirò fuori un sacchetto di carta con i viveri di sussistenza preparati dalla mamma, che consistevano per il primo pasto in due panini con pane burro e zucchero e alcune frittelle di mele, specialità della nonna. Da bere non avevano portato niente, solo una tazza smaltata con il manico, per poter attingere facilmente l’acqua dalle sorgenti che sgorgavano non lontane e che confluivano tutte nel fiume principale.

Mentre consumavano il loro prelibato pasto, i due chiacchieravano e guardavano il fiume che era vivo, in alcuni posti quasi rumoroso, mentre alcune lame ne caratterizzavano le zone più pianeggianti.
C’erano ghiareti, zone sabbiose e grossi massi che infrangevano la corrente formando linee di schiuma bianca che però si dissolveva poco più valle senza lasciare odori di lavanda o di coccolino l’ammorbidente.

Per i più attenti il fiume dava altri segni di vita, era in atto infatti una schiusa di delicate effimere marroncine, che quando si posavano sul pelo dell’acqua venivano misteriosamente risucchiate verso il basso, come se fossero navi nel triangolo delle Bermude, e come unico segnale di questa forza misteriosa restava una piccola increspatura ed un cerchio sull’acqua.
Quando però a cadere sull’acqua era qualche insetto terrestre un po’ più grande delle effimere, si poteva persino sentire il rumore di quel vortice che inghiottiva la sfortunata cavalletta che aveva fatto un salto troppo lungo, atterrando al di la degli ultimi fili d’erba.

Il papà decise allora che era giunto il momento giusto, tirò fuori dallo zaino una custodia in tela verdone che conteneva una vecchia canna da pesca di bambù in due pezzi , che era appartenuta al bisnonno della bambina, e una volta montata ci sistemò il mulinello che conteneva una coda di topo piuttosto vissuta che presentava alcune smagliature, segno evidente che aveva già affrontato diverse battaglie, come accade anche alla pelle delle donne mature.
In cima alla coda era legato direttamente un finale di lenza sottile lungo un paio di metri, non bisognava fare altro che cercare nella scatola una mosca adatta alla situazione.

“Ci vuole una mosca color nocciola con delle piccole ali quasi trasparenti e una coda biforcuta” disse la bambina che era una attenta osservatrice della natura e aveva notato le effimere che ronzavano attorno alla sua bocca sporca di burro e zucchero.
Trovata! Nella scatola c’erano imitazioni con quelle caratteristiche e fu proprio la bambina a scegliere quella che le dava l’impressione di essere riuscita meglio, anche se secondo lei quelle vere erano più belle.

La coda cominciò a volteggiare e la mosca si posò delicatamente sull’acqua, poco a lato di un masso dove la corrente era leggera e continua, e dopo aver percorso pochi metri la misteriosa forza che attraeva gli insetti verso il fondo si impadronì anche dell’imitazione del papà, che immediatamente ferrò.
La vecchia canna di bambù si incurvò e cominciò a vibrare nervosamente, come se avesse un’anima che aveva deciso di avere la meglio sulla forza che tirava verso il fondo del fiume.
Improvvisamente la misteriosa forza si materializzò nelle sembianze di una bella fario, che fece due balzi sull’acqua per tentare di vincere la singolar tenzone che aveva intrapreso con la canna di bambù, per poi arrendersi e lasciarsi portare verso riva dove tentò l’ultimo disperato tentativo di fuga, ma niente da fare, la sfida era persa.

Il papà si chinò verso il fiume, si bagnò le mani e senza tirare fuori il pesce dall’acqua lo liberò dall’inganno, proprio mentre la bambina che aveva tirato fuori dallo zaino la piccola macchina digitale gli stava facendo una foto.
“Era bella vero papà? Aveva tanti bei puntini neri e qualcuno rosso, speriamo che non abbia sentito troppo male.” Seguirono diversi altri lanci, e ogni qual volta la posa era quella giusta una trota cedeva alle lusinghe dell’artificiale e veniva tirata verso riva, fotografata e rilasciata.

In prossimità di un salto più pronunciato, il corso d’acqua creava una buca più profonda che andava via via spianandosi, per finire con un bel raschio.
“Mi fai provare a me adesso? Siamo nel prato e non c’è nemmeno un albero dietro e poi guarda come bollano laggiù dove finisce la corrente.” Il papà cambiò imitazione, tolse l’effimera in cul de canard e mise una mosca più grande, un’imitazione di cavalletta e passò la canna alla bambina.

Un paio di tentativi e il lancio raggiunse la zona dove si vedevano le prime bollate, la mosca scendeva lentamente e appena cominciò a dragare ecco lo splash del pesce, che non ha saputo resistere a ciuffo di pelo di cervo, scambiandolo per una cavalletta, piatto prelibato anche per alcune specie di umani.
La vecchia canna di bambù si piegò più del solito e dall’altro capo della lenza cominciò a saltare una bella iridea, lunga almeno 45 centimetri, che sembrava avere un conto in sospeso con la bambina che iniziò a recuperare la coda con decisione.

Uno sguardo al pesce ed uno al papà che guardava la figlia con aria soddisfatta, la bambina teneva forte la canna con due mani, cercando di non farsi scappare la coda di topo dalle dita.
Appena il pesce allentava un po’ la sua tensione, la piccola accelerava la manovra di recupero e in breve la trota fu sotto riva, pronta a finire nel guadino che il papà aveva tirato fuori dalla tasca del gilet e posizionato nell’acqua.
Ancora un ultimo sforzo e il pesce finì nella rete pronta per essere fotografata. “Questa la libero io” disse la bambina e si chinò verso il suo trofeo, pronta a rimetterla in libertà.
“Guarda che bella, questa striscia che ha sul fianco sembra un arcobaleno e il resto del corpo sembra d’argento.”
Piegata verso l’acqua la bambina slamò il bel salmonide, dandogli un saluto con la mano, come fosse un arrivederci alla prossima giornata di pesca.

Anche per la piccola le soddisfazioni non erano finite, perché ogni volta che il suo lancio, ancora da perfezionare, raggiungeva la zona di attività delle trote, immancabilmente si verificava un’abboccata.
I due si divertivano ed il tempo passava velocemente, come sempre accade in queste circostanze e mai quando sei dal dentista.

Decisero allora di spostarsi un po’ più a monte, dove il papà aveva promesso alla bambina di farle vedere degli altri tipi di pesci, dall’odore di timo e con una bella pinna dorsale colorata di blu o di arancione.
In pochi minuti furono nel posto prescelto, si trattava di un raschio con il fondale ciottoloso e con l’acqua piuttosto bassa e veloce.

Qui le mosche che venivano trascinate a valle dalla corrente, scomparivano come risucchiate da una specie di aspirapolvere acquatico, lasciando come segno soltanto un piccolo cerchio sulla superficie.
“Eccoli, i temoli sono li, verso il fondo della corrente. Sembrano solo delle ombre, ma se guardi bene puoi vedere le loro pinne colorate che sembrano delle piccole vele” spiegò il papà alla piccola.

Decisero a giudicare dalle bollate, che bisognava mettere di nuovo una mosca più piccola. Il papà ne scelse una scura, costruita con chissà che piume di uccello esotico.
Il primo lancio venne subito bene, la mosca si posò delicatamente sul pelo dell’acqua e scivolò verso quelle ombre del fiume e il papà era pronto a ferrare la sua preda.
Ecco l’ombra salì verso la mosca, ma giunta a pochi centimetri da essa tornò verso il fondo ciottoloso. La stessa sorte toccò al secondo, al terzo e al quarto lancio, era quindi evidente che quell’artificiale non piaceva ai pinnuti dal profumo di timo, bisognava cambiare.

La bambina aprì la scatola e scelse una piccola mosca giallina, dicendo che assomigliava a quella che aveva ingoiato prima, mentre stava finendo di mangiare il panino.
Il papà pensò che era una buona idea e la legò in cima alla sua lenza, che immediatamente dopo si posò poco a monte della testa dei pesci, tanto belli quanto dai gusti culinari difficili e raffinati.

Il posto era quello giusto e il lancio fatto bene e questa volta l’ombra, arrivata sotto la mosca aprì la bocca con calma e la aspirò.
Una ferrata delicata ma decisa e la vela del timallide era già bella che issata e pronta a far valere la propria forza idrodinamica, per liberarsi dalla trappola nella quale era caduto.

Questa volta era la bambina a tenere in mano il guadino, curiosa come un gatto di vedere da vicino la forma di quello strano pesce con la pinna colorata.
L’ultimo balzo e anche questo avversario finì ai piedi dei pescatori, che lo guardavano con l’aria soddisfatta di chi è stato più furbo del rivale.
Una volta preso nel retino la bambina slamò il bel temolo, ne sollevò delicatamente la pinna dorsale per vederne da vicino i colori e per ultimo lo annusò, per scoprire se era vero che aveva lo stesso odore di quell’erba che cresceva nel giardino della nonna e con la quale si fanno anche le creme iper costose della Just.
Una smorfia e subito dopo il pesce scivolò veloce verso la parte più fonda del fiume, per sparire definitivamente dalla vista dei due pescatori. “Bech.. a me sembrava che puzzasse di pesce come gli altri” esclamò schifata la bambina, “altro che crema al timo” e subito dopo si asciugò il naso che aveva toccato il pesce, usando la manica della maglia.

Non avevano orologi e il cellulare continuava il suo stato di coma profondo, ma i due, guardando il sole, capirono che doveva essere ormai pomeriggio inoltrato.
Si sedettero allora sulla riva del fiume, si tolsero le scarpe e fecero un bel pediluvio rinfrescante, prima di azzannare i gli ultimi due panini alla fontina che la mamma aveva saggiamente aggiunto di nascosto nello zaino del papà.

Mentre finivano il panino super calorico, la bambina si accorse che qualche centinaio di metri più a monte c’era un altro pescatore, che proprio in quel momento stava salpando un pesce.
L’uomo si chinò estrasse qualcosa dalla borsa di tela che portava a tracolla e rimase seduto per alcuni minuti, prima di riporre nella borsa quello che poco prima aveva tirato fuori e si rimise a pescare poco più a valle.

Anche lui aveva una canna di bambù, molto simile alla loro, ma sembrava più nuova.
Al posto della coda di topo però, il pescatore aveva un mulinello tradizionale, grigio, con poche decine di metri di lenza in bobina, ma era pulito e gli ingranaggi ben oleati, doveva essere un Alcedo.

Quell’uomo non sembrava particolarmente vecchio, doveva avere poco più di sessant’anni, ma aveva un qualcosa di antico, accentuato ancor di più dal suo abbigliamento: pantaloni di velluto, maglia di lana fatta con i ferri, una specie di cacciatora e ai piedi degli scarponcini di cuoio marrone scuro, anch’essi ben ingrassati, per renderli idrorepellenti.
Con se aveva un cane, un segugio di piccola taglia e con il pelo ispido, che dopo aver passato la mattinata a correre dietro ad una lepre, ora lo seguiva come un’ombra.

Anche il vecchio pescatore era un attento osservatore del fiume e proprio sulla sponda opposta, dove un salice sfiorava con i suoi rami il pelo dell’acqua, aveva notato una trota che bollava con regolarità.
La lenza era armata con solo un piccolo pallino di piombo, il minimo indispensabile per poter lanciare, e alla sua estremità era legato un piccolo amo forgiato al quale il pescatore innescò una cavalletta che aveva appena catturato nel prato.

Il primo lancio risultò troppo corto, ma il secondo finì proprio sotto le fronde del salice, giusto il tempo di chiudere l’archetto e una bella fario già tirava per liberarsi da quel boccone ingannevole che il vecchio le aveva astutamente lanciato con precisione certosina.
Una volta rilasciato il pesce, l’anziano pescatore riaprì nuovamente la borsa di tela, si sedette sull’erba e così restò di nuovo per qualche minuto.

Il papà e la bambina erano ormai fortemente incuriositi da quell’uomo d’altri tempi e decisero di avvicinarsi per capire che diavolerie combinasse dopo aver catturato un pesce, e con la scusa di fare quattro chiacchiere gli si avvicinarono tenendosi nuovamente per mano.

“Ciao signore” esordì la bambina, “ciao Elena” rispose il pescatore d’altri tempi. “Ne hai prese tante? Erano belle grosse?” chiese con decisone la bambina. “Qualcuna era proprio bella, altre un po’ più piccole, se vuoi te le faccio vedere” rispose il vecchio, e mise una mano nella misteriosa borsa di tela e ne estrasse un quaderno a quadretti un po’ ingiallito.
“Ecco, le ultime cinque che ho disegnato sono quelle di oggi, le altre le ho prese le volte scorse.
Quella sotto il salice l’ho già presa due volte, la riconosco da quel puntino nero che ha proprio sulla pinna dorsale e da questa piccola cicatrice che ha vicino alla coda, vedi?” Il quaderno ingiallito era zeppo di disegni di pesci fatti a matita, ce ne erano di più grandi, di lunghi e qualcuno era quasi gobbo e si distinguevano chiaramente le belle fario maschio, che il vecchio aveva disegnato evidenziando in maniera particolare la loro bocca a forma di becco.

Erano rappresentate anche delle iridee e qualche temolo e tutti i disegni avevano vicino la data ed una sigla. “Oggi non ne ho tenute, ma ogni tanto ne porto a casa una per la cena, sai con i tempi che corrono..” spiegò il pescatore alla bambina, come fosse in grado di capire le necessità economiche di una famiglia.
“Ora devo andare, le giornate cominciano ad accorciarsi ed io devo pedalare un po’ per arrivare a casa mia, ma spero di incontrarti ancora. Ciao Elena.” “Ciao signore”.

Il pescatore di una volta salì sulla sua bici di una volta: era nera, con la sella di cuoio, la canna un po’ sverniciata e con i freni a bacchetta e si allontanò sul sentiero seguito dal suo segugio a pelo ispido.

Anche per il papà e la bambina era arrivato il momento di tornare verso casa, e si incamminarono verso il passaggio nella roccia, lo superarono e subito dopo il cellulare resuscitò miracolosamente.

Una volta giunti sul ciglio della iperstrada a sei corsie accelerarono il passo, per giungere il più velocemente possibile a casa e raccontare tutto alla mamma e alla sorellina.

La bimba salì di corsa le scale, accese il computer estrasse un cavetto e lo collegò alla macchina fotografica digitale, poi corse a chiamare la mamma e la sorella.
“Venite a vedere in che posto siamo andati oggi e che pesci abbiamo preso!” disse euforica la bambina” e appena le altre due donne di famiglia furono vicine al PC schiacciò con sicurezza un tasto della fotocamera, cliccò su scarica immagine e… niente, sul monitor comparve solo il disegno a matita di una fario con un puntino nero sulla pinna e una piccola cicatrice vicino alla coda, realizzato su un foglio ingiallito, con la data 30 settembre 1965 e la sigla A.G.

Massimo Arcaro


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