USA - Un viaggio che ti cambia la vita

USA  Maggio 1999


Testo e foto di Domenico “Jack” Lupo Pasini


Se penso a un itinerario dove ho dovuto relegare tutta la mia esperienza di navigato pescatore a mosca in un angolo remoto della mia mente, nascondendo tutti i miei trucchi da prestigiatore della mosca per soffocarli sotto un disciplinata esecuzione degli ordini impartiti dalla guida, non posso confondermi con altre acque: il mio fiume è il Big Horn nel Montana a Forth Smith.
Arrivavamo da una settimana straordinaria passata a catturare steelhead in Alaska, viaggio organizzato dal bravo e paziente Claudio Tagini.
Eravamo tutti del Fly Fisher Club di Milano: Paolo, Angelo, Raffaele e il sottoscritto, un gruppo cresciuto prevalentemente sui fiumi di fondovalle, innamorati delle lunghe lame delle bollate impossibili da raggiungere. Quando io arrivai al Fly Fisher Club nel lontano 1987, Angelo Piller era già iscritto da un anno ma la crescita alieutica fu per entrambi più o meno la stessa. Paolo e Raffaele arrivarono circa un anno dopo e ad amicizia ormai consolidata da numerose uscite di pesca avevamo deciso di fare la follia: una settimana a steelhead in Alaska e poi giù di corsa per sei giorni nel Montana nel Gotha delle lunghe lame, in quel fiume plasmato dall’uomo e ora trasformato in uno dei luoghi più rinomati e prestigiosi per la pesca a mosca.
Si perché dovete sapere che il Big Horn, fin dai tempi del generale Custer, pace all’anima sua, era un fiume torbido, fangoso e soprattutto caratterizzato da una temperatura più adatta all’allevamento di pesci gatto del Missisipi.
Erigendo una monumentale diga che fa da bacino di decantazione, gli americani hanno ottenuto una tail water limpidissima e incredibilmente fredda, che viene prevalentemente utilizzata per l’irrigazione di tutto l’indotto agricolo circostante.
Dopo le varie conseguenze che ben conosciamo sulla conquista dell’Ovest, finalmente il tanto distruttivo progresso ha partorito una piccola gemma naturale. Ma anche là hanno avuto modo di criticare l’opera adducendo le solite cause: stravolgimento del corso naturale dell’alveo, snaturalizzazione dell’identità del fiume, etc, etc.. Se non che furono proprio le comunità indigene a prendere per il bavero i vari giornalisti che gettavano benzina sul fuoco e a dirgli di smetterla, altrimenti sarebbero dovuti tornare nei loro teepee, a masticare carne secca, invece di avere una seria opportunità di diventare competitivi con i vari proprietari confinanti.
Così arrivammo a Denver, Colorado. La macchina a noleggio ci aspettava all’aeroporto. Paolo guidava tranquillo, Angelo faceva da navigatore ( la strada era tutta un rettilineo….) io e Raffaele, i più piccoli, eravamo stipati dietro con i bagagli che ci permettevano solo respiri misurati per non far saltare la serratura del bagagliaio. Avevamo comunque tutti uno sguardo sognante verso l’orizzonte. I ricordi delle catture dei giorni precedenti si affacciavano alla memoria e ogni tanto una battuta su quello o quell’altro episodio, come quando dimenticammo una cassa di coca cola nel freezer (pensate un po’ alle conseguenze ), gettava nell’ilarità totale e spensierata tutti gli occupanti della macchina. Arrivammo nel primo pomeriggio a Forth Smith, nome che fa pensare a un ultimo avamposto militare disperso nella prateria.
Forth Smith era un posto affascinante: c’era tutto quello che ci serviva. Un magazzino per approvvigionamenti alimentari, un campeggio con tanto di noleggio barche, il ristorante caffetteria da Polly, e l’immenso negozio di pesca dove c’era ogni cosa e anche di più.
Telefonammo a Bred, il coordinatore delle guide del Big Horn, che ci consegnò le chiavi di una confortevole villetta e ci disse che le due guide sarebbero arrivate l’indomani. Una volta pianificato tutto, saltammo sulla macchina con già addosso i wader e scendemmo verso il fiume. Credemmo di fare una strage al primo coup de soir, ma non fu così. Solo Angelo ebbe un risultato e se me lo permette, era pure misero in confronto alle catture che seguirono nei giorni seguenti. Tornammo alla macchina un po’ perplessi ma non delusi, certo! Non puoi mica capire tutto un fiume in un’ora! Ma la nostra aurea di pescatori infallibili era stata intaccata, e questo per chi è abituato a sparare e fare centro, lascia un certo fastidio che solo una mezz’oretta di meditazione in assoluto silenzio può guarire. In macchina non parlava nessuno. Il ristorante ci restituiva l’identità di esseri umani e non di dei come a torto pensavamo poche ore prima.
Non mi rammento a che ora mi svegliai la mattina perché non ricordo di aver dormito, fatto sta che come sentimmo le macchine delle guide entrare nel giardino, balzammo come quattro leoni ammaestrati nel portico, tutti con le fauci aperte e ritti sulle due zampe ad aspettare un qualsiasi ordine dei due domatori.
La nostra guida si chiamava Eric D. Wilcox, un pennellone alto due metri con la coda di cavallo e gli occhialini alla John Lennon.
Gus stava a prua con la coda che scandiva i secondi come un metronomo e la barca col motore al minimo fendeva dolcemente le acque; nei vari raschi si potevano osservare molte trote in frega per lo più iridee che nel mese di maggio sfoggiano una livrea nuziale arcobaleno.
Gentilmente la guida ci chiese di evitare di pescare sui letti di frega.
Ci fermammo su di un piccolo atollo del fiume e Eric mi si piazzò davanti chiedendomi di porgergli la canna. Gli consegnai la mia Sage RPL plus nove piedi coda cinque annuendo con soddisfazione e una certa superiorità spiegandogli che l’avevo montata e rifinita con le mie mani. Per un attimo spalancò gli occhi e un fugace sorriso rivelò il sincero apprezzamento sia per i materiali utilizzati sia per l’attrezzo così confezionato, ma le sue mani già correvano nell’eseguire ciò che si era prefissato di fare: voleva cambiarmi il finale !!! Cooosa ? Alt! Ferma tutto! ...forse non hai ben chiaro con chi hai a che fare, non sono il pivello annoiato che ha ricevuto una vacanza gratis dalla nonna milionaria. Io ho più di quindici anni di esperienza con la canna da mosca, non per niente al Fly Fisher Club hanno incaricato me sia per i corsi di costruzione che per i corsi di lancio da 5 anni a questa parte!
Cercando di nascondere l’alterigia che sprizzava da tutti i pori mi limitai a far notare che era tutto a posto, anche per instaurare un clima di reciproco scambio di idee. Eric si girò verso di me e mi inchiodò con i suoi occhi azzurri. Stringendo un pezzo di nylon tra i denti mi disse:” No! è sbagliato!”
..Ammansito dalla curiosità del risultato, mi rimisi anima e corpo nelle mani di Eric che oramai stava stravolgendo metà delle mie certezze acquisite in tanti anni di pesca.
Cominciò a staccare metà del finale e all’altezza più o meno dello 0,20, attaccò un lunghissimo tratto di 0,14 e poi due piccole ninfe sul 18 senza praticamente peso. Uno split shot microscopico posizionato a circa trenta centimetri sopra la ninfa di testa ovviava questa lacuna. Era il primo finale che vedevo costruire con coscienza per la pesca a ninfa.
Quando noi pescavamo a ninfa in Valtellina, usavamo un finale da secca, perché se cominciavano a bollare la scatola delle ninfe veniva relegata nel fondo del tascapane . Pescare a ninfa per noi era un ripiego, la vera gioia l’avevamo pescando a secca. Anni più tardi questo tipo di finale lo trovai divulgato in alcuni giornali del settore come finale per la pesca con la ninfa Ceca.
Il lungo tratto di 0,14 fendeva molto meglio l’acqua di un comunissimo finale a nodi che per far affondare le micro ninfe avrebbe avuto bisogno di un cospicuo supporto di piombo con i dovuti problemi in fase di lancio. Poi Eric aggiunse al finale una sorta di ammortizzatore lungo circa una spanna, legandolo all’asola in prossimità della coda. E sempre con la stessa espressione da beota lo vidi fissare a quella spanna di elastico molto resistente un ciuffo di macramé (un sintetico simile al rayon) annegandolo poi nel silicone per farlo galleggiare meglio. Sarebbe servito da strike indicator Lo strike shock gum ( l’ammortizzatore) ci permetteva di ferrare anche a distanze notevoli con tippet sottili senza praticamente spaccare in bocca alle prede. Il ciuffo di macramé funzionava meravigliosamente come avvisatore di abboccata. In pesca sembravamo degli imbianchini: era come pitturare il fiume senza tralasciare la ben che minima porzione di corrente! Mentre facevamo la classica passata in dead drift, ad un certo punto il fiocco s’inchiodava, la coda nel tendersi squarciava l’acqua e il cimino trasmetteva al braccio le scodate delle trote che cercavano la fuga.
Dovevate vedere come Eric recuperava le trote! Per noi pescatori una cattura è sì una lotta col pesce, ma è anche qualcosa da assaporare. Per una guida professionista il recupero del pesce deve essere ridotto al minimo, in modo da non affaticare eccessivamente la trota. Il cimino della canna puntava direttamente la trota allamata, ammortizzando ogni suo tentativo di prendere coda.
Eric ci spiegò come riconoscere una fario di ceppo germanico da una di ceppo scozzese. Queste erano le due razze europee con cui era stato ripopolato il fiume. La guida ci fece anche vedere come cercare le trote nelle varie zone del fiume in funzione di come fosse più o meno luminosa la giornata: non so quanto tempo ci avesse messo un essere umano per apprendere tutto questo, ma a noi veniva offerto su di un piatto d’argento in un solo giorno.
Una domanda però mi aveva sfiorato la mente per un secondo mentre catturavamo le trote a ninfa: “ma se adesso cominciano a bollare,come facciamo? Cambiamo ancora il finale?” Quando però risalimmo sulla barca per spostarci, le due canne già montate poste lungo le fiancate mi avevano tolto qualsiasi perplessità .
Eric pensava proprio a tutto! . Ora che eravamo arrivati nell’ansa dalla morbida corrente, era venuto il momento di usarle. Le bollate, rade a dir la verità , mi avevano già dilatato la pupilla e obnubilato qualsiasi altra funzione del mio corpo.
Eric ci fece scendere poco a valle e ci diede in mano le canne con già attaccata la mosca, poi, allungando una mano mi disse: “Go! And catch these fishes!”. Cominciai a lanciare mirando alla gobbata più a portata di coda e non appena la mosca si posò, la bollata fu immediata, seguita da una ferrata veloce…forse troppo. Infatti spaccai il finale! Sigh, come il più neofita dei pivelli!
Eric mi rimise un’altra mosca simile a quella persa. Una normalissima effimera con ali in ciuffo sintetico, ma con un altro ciuffo di diverso colore nel mezzo, così sulle lunghe passate mi era possibile scorgerla perfettamente grazie alla bicromia delle ali.
Le bollate continuavano, ma vista la difficoltà sospettai di trovarmi di fronte a ninfate di superficie.... non ci pensai neanche un secondo… presi la mia scatola degli emerger e ne montai subito uno, piantando la mosca di Eric nel montone.
Lancio morbido e curvo a monte…l’emerger scorreva senza dragare in una delle tante correntine che alimentavano 5 o 6 trote davanti a me, poi improvvisamente una virgola sull’acqua in corrispondenza del mio finale! Ferrai e dopo una breve lotta riuscii a recuperare una stupenda fario dalla livrea mozzafiato.
Notai che lo sguardo di Erik si posò sul gancetto appendi mosche della canna. Mi aveva scoperto! Lo ammisi: ”ho cambiato la mosca!” Pensavo che Erik avrebbe snobbato il mio artificiale, e invece lo osservò interessato e subito dopo mi fece i complimenti per l’originalità dell’imitazione. A quel punto lasciai che Erik si occupasse di Raffaele e mi godetti lunghi minuti di completa solitudine.
Ritornai da loro in uno stato di beatitudine, dopo essermi fatto cullare per un’ora dal fiume. Lo sguardo di Eric e il sorriso soddisfatto del Raffa mi indussero a pensare che tutto quello che potevamo fare era stato fatto.
Nel frattempo Eric stava già rimuginando sul prossimo luogo da visitare.
Ci portò in uno di quegli angoli fatti apposta per lanciare una mosca nel sottoriva della sponda di fronte: il piccolo corso d’acqua non era più largo di otto, nove metri, ed era profondo circa un metro e mezzo. Richiedeva un avvicinamento che ricordava la tecnica di caccia di alcuni felini visti nei documentari. La sterpaglia ci nascondeva abbastanza, ma per lanciare avremmo dovuto fare numeri da circo. Raffa si fermò alla confluenza con il ramo principale dove c’era più spazio per il lancio.
Eric, indicando un punto ancora più a monte, mi disse: “è là che ti voglio vedere lanciare!” Ormai strisciavamo sul ventre! Con l’indice puntato mi indicò il bersaglio da centrare. Un errore come quello di impigliare la mosca in un ramo della riva di fronte avrebbe voluto dire buttare via venti metri fatti con i gomiti. Ovviamente mi impigliai subito, ma per mia fortuna nell’erba alle mie spalle.
Iniziai a compiere alcuni falsi lanci e poi lasciai che la coda si depositasse in prossimità della grossa trota. Avevo gli occhi fissi sul testone del pesce e improvvisamente lo vidi scartare verso il basso. Il bagliore bianco della bocca del pesce fu il segnale che aspettavo…ferrai deciso. Centro! Il siluro maculato risalì di scatto la corrente e dopo cinque minuti di lotta furibonda, riuscì a guidarne la discesa verso il retino della guida. Eric mi chiese: “ Do you want a picture?” - “No grazie”, fu la mia risposta, “lo so io e lo sai tu… that’s all”.
Risalendo catturai ancora quattro trote, una più bella dell’altra. Poco dopo ci avviammo verso valle dove scorgemmo il Raffa intento a lanciare. “Anche quello” gli dissi “è uno che non molla mai! Ricordati quando farai da guida ad altri italiani!”
Spalancò gli occhi dietro le lenti e mi domandò: “ ma perché siete tutti così? ”
... Ero stanco morto, ma trovai il fiato per scoppiare a ridere fino alle lacrime .
Lo rassicurai dicendogli che non proprio tutti eravamo così malati per la pesca a mosca. Per fortuna non gli era toccato Angelo! Se no chi lo convinceva!
Chiudemmo la giornata vicino all’ 8 Miles Access, in una grande lama a consumarci sulla schiusa del tramonto. Mai viste così tante trote bollare insieme, e mai visti tanti rifiuti; sarà che il Big Horn conta circa settemila trote per km quadrato d’acqua!
La luce colpiva quasi perpendicolarmente le ali in verticale delle effimere. Ce n’erano miliardi, ma noi non volevamo mollare. Tra la luce particolare e i nostri occhi ormai provati, quando catturavamo qualche trota facevamo fatica a tirarla a riva. Era il momento in cui sei talmente stanco e appagato dalla giornata che sembri ubriaco. Solo il buio e la temperatura dell’acqua ci mise infine in ginocchio sulla riva, inermi!
A quel punto Eric ebbe compassione delle nostre carcasse e ci riportò alla macchina per accompagnarci a casa. Entrammo in auto vestiti ( non avevamo avuto la forza di toglierci gli scarponcini ).
Ci fu il tempo per dirgli che era stato fantastico e un vero onore poter pescare con una persona competente e disponibile come lui. Da buon americano non perdeva occasione di celebrare ogni complimento con un”Wow!!” o con un “ Give me five!!” A sua volta ci fece i sinceri complimenti per le nostre capacità piscatorie. Io mi sentivo al settimo cielo perché un professionista come lui ci stimava davvero.
Quando entrammo nel giardino, la macchina dell’altra guida che sarebbe toccata a noi il giorno dopo illuminava il portico della casa dove Paolo e Angelo fluttuavano a un metro da terra. Si vedeva lontano un miglio che la giornata era andata alla grande pure a loro. Prendemmo accordi per la battuta dell’indomani con l’altra guida, e poi venne il momento di salutare Eric.
Era inevitabile guardarlo dal basso, alto com’era! Ma dopo tutto quello che mi aveva insegnato mi sentivo più alto anch’io. Ci stringemmo la mano con uno sguardo misto tra ammirazione e dal significato eloquente : -“spero che tu non sia mai davanti a me in un giorno che risalgo un fiume”- Lo capii da come la sua stretta mi aveva accartocciato le falangi della mano destra.
Salì in macchina e partì. Da quel giorno volli essere come lui: mi spogliai di ogni cosa superflua, spille, spillette, spilline, toppe turistiche sul giubbino o altre stupidaggini. Recisi il tutto si può dire con un colpo di tomawak visto dove mi trovavo; la mia mente era libera, serena, non c’erano più tutte quelle domande catastrofiche: “E se faccio cappotto? E se non bollano?” tutto era diventato chiaro; ci aveva scorrazzati sul Big Horn con un paio di wader , una collanina con tutti gli arnesi che servono e una sola scatola di mosche grande come un pacchetto di sigarette!
Eric tutte le risposte le aveva lì dentro: alla fine ci aveva dimostrato quante certezze avesse e quante poche domande si faceva quando portava qualcuno a pescare . Mi aveva dato l’illuminazione, e forse io ero arrivato ad una certa maturità che mi metteva in grado di coglierla.
Non crediate che l’illuminazione venga mentre sei a mollo nella yakuzi.
L’illuminazione ti arriva sempre quando sei allo stremo delle forze, quando ti sei perso e non trovi la strada del ritorno, quando ti fai mille domande e non riesci a darti una risposta. Chissà se persone come lui, in grado di farti apprendere gran parte della filosofia della pesca a mosca, si rendono conto in quale altissimo grado di considerazione sono tenuti dai loro allievi. Dovrebbero andare in giro tra i comuni mortali rilucendo di luce propria.
Invece si comportano con la naturalezza di chi ha fatto solamente il proprio dovere. Io da quel giorno ho imparato a dare anima e corpo pur di riuscire a trasmettere nei miei corsi di lancio tutto ciò che posso a un allievo, perché lo sguardo di riconoscenza per quel poco che sei riuscito a dare è di una gratitudine tale che è perfino disarmante e ti unisce a loro per sempre! Come quando un anno si presentò da me un ragazzone ( sono sempre più grandi di me…sembro sempre Yoda che insegna a Luke Skywalker! ) che voleva imparare a lanciare. Si chiamava Valerio Santagostino. Ma questa è un’altra storia…

Domenico Lupo Pasini


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