USA - Le steelheads dell'Oregon (4° parte..il ritorno)

USA  Settembre 2010


di Gianfranco “Von Pellix” Pelliciari

La cronistoria in più parti, tra il serio e il faceto, del mio viaggio in USA, in compagnia dei cari amici scavezzacollo Antonio "Popeye" Fadda e Franco "Pakey" Arsie, per pescare le steelheads dei più blasonati fiumi dello Stato dell'Oregon: l'Umpqua e il Rogue. Tanto per terminare quest’avventura continuando a farci quattro risate insieme...


L’ultimo giorno, purtroppo, è ormai arrivato. La delusione per non aver catturato nessuna steelie da parte mia e di Antonio è palpabile mentre Franco, alla fin fine, si ritiene soddisfatto (… il “busone”!!!). Ma i “torni non contano” percui ci sentiamo sin da ora autorizzati a considerare solo “patta” la partita con quegli stronz@@@issimi pesci.
Decidiamo così, seduta stante, che sarà nostra cura ritornare fra qualche tempo a pescare su questi meravigliosi fiumi dell’Oregon per chiudere definitivamente la tenzone con loro… Perbacco!! Siamo uomini o caporali? (bèh… in effetti io sono Colonnello… chissà se in questo caso il detto vale lo stesso…) .
La consueta mega colazione, questa volta preparata quasi con il buio, ci vede riuniti nel tinello del lodge a parlare delle nostre avventure per fissare nella mente i momenti più salienti di questa bellissima avventura americana per poi viaaa… a rassettare per l’ultima volta la cucina e a caricare in macchina i bagagli, cercando di non dimenticare nulla.
Partiamo presto anche se il volo da Eugene per Salt Lake City è previsto per le 13.00 ora locale; d’altronde al termine del viaggio dobbiamo anche lavare meglio la macchina e fare il pieno prima di riconsegnare la vettura all’Agenzia di noleggio eppoi… sono sempre 150 miglia da Shady Cove (oltre 240 chilometri) da percorrere rigorosamente a 65 miglia all’ora (106 km/h) e non si sa mai cosa ci potrebbe capitare.
Un’ultima occhiata al lodge, appena illuminato nella luce dell’alba, che sembra spuntare dalla radura come una visione che ci resterà nel cuore per sempre e ci immettiamo sulla stradina che abbiamo percorso con un altro animo nei precedenti sette giorni.
Il viaggio in mezzo agli alberi, che catturano la poca luce dell’alba, ammanta di magia la stradina sterrata che dobbiamo percorrere per immetterci sulla strada asfaltata. Per l’ultima volta apriamo il cancello che delimita la proprietà che ci ha visti ospite e continuiamo quasi a farci letteralmente strada nel bosco, continuando ad illuminare con i fari i bordi della carreggiata che si snoda tortuosa fra gli abeti Douglas. Ci aspettiamo da un momento all’altro di incontrare il solito branchetto di daini o uno degli scoiattoli curiosi che ci salutavano al nostro passaggio, ma il buio non ci permette di vedere praticamente nulla.
Ancora non abbiamo realizzato che ce ne stiamo andando e solo dopo aver raggiunto uno dei pochi posti che permettono il collegamento con i cellulari purtroppo ci svegliamo da questo bel sogno. Finalmente riusciamo a fare una telefonata a casa per avvisare i nostri cari di essere ormai sulla strada del ritorno (il lodge è in un cono d’ombra percui dovevamo sempre aspettare di essere in cima ad alcuni sali-scendi del percorso per poter avere campo… o meglio, aspettava “chi” aveva il telefonino che funzionava… sempre mannaggia alla COOP ) e questo ci riporta subito con i piedi per terra.
La giornata si preannuncia splendida: ci immettiamo sulla “Interstate 5 North” in direzione di Eugene e il paesaggio ci appare sempre più coinvolgente sfilandoci veloce ai lati. Rimane sempre uno spettacolo ammirare questi rettilinei lunghi anche parecchi chilometri che caratterizzano le strade a lunga percorrenza americane.
Il traffico è sostenuto anche a quest’ora quasi antelucana; incrociamo e sorpassiamo molti super-camion in viaggio come noi verso le rispettive destinazioni. La velocità si attesta sulle solite 65 miglia all’ora e il “cruise control” di cui è dotata la macchina ci permette comunque di rilassarci un poco – si fa per dire – e di chiacchierare scambiandoci le ultime osservazioni sulla nostra avventura.
A un certo punto incrociamo un cartello che, subito, ci accende la mente di visioni: è l’indicazione che segnala lo svincolo per la famosa “Highway 66”, più nota come la “Sixty-six”. Che meraviglia!! Stiamo per incrociare una vera e propria icona della storia americana, la via che taglia praticamente a metà gli Stati Uniti, resa nota dai numerosi films che vi sono stati girati e ambientati, percorsa sin dal secolo scorso dalle carovane in viaggio dalla costa sull’Atlantico a quella sul Pacifico e che ha aperto la strada del west ai pionieri.
Mitico!!!
Il paesaggio ci sfila accanto e lo spettacolo della nebbia mattutina che, piano piano, si ritira inseguita dai raggi del sole nascente è stupendo. Lo so che queste stesse immagini, questi stessi spettacoli possiamo ammirarli anche da noi in Italia, ma essere qui negli States dà un sapore particolare a quello che è, nella sua quotidianità, un evento così normale come il sorgere del sole.
A riprova di ciò, un banco di nebbia improvviso ci fa ricordare che presto saremo di ritorno nella nostra “pianura Padana”, dove questo fenomeno è così normale da passare praticamente inosservato.
Eppoi, possiamo proprio chiamare “nebbia” questi pochi ciuffi di ovatta sfilacciata? Al massimo possiamo degnarli dell’appellativo di “legger foschia”… Mi sa che qui il vero termine “nebbia” non sanno mica cosa sia. Dovrebbero venire da noi nella “bassa” a novembre per rendersi veramente conto cosa vuol dire “nuotare nella nebbia”…
Dopo qualche tempo passiamo davanti all’incrocio che, la settimana prima, avevamo imboccato per recarci a Roseburg sull’Umpqua e subito il pensiero va alla splendida avventura sul quell’altrettanto splendido fiume.
Mannaggia!! Però quelle steelheads che nuotano tranquille nelle sue acque ci stanno ancora sul gozzo. Ma non è finita qui… non è finita qui… Questo è solo un “arrivederci”.
Ormai siamo arrivati ad Eugene. L’aeroporto è quasi in vista poco al di là dello svincolo ma ora dobbiamo cercare prima una stazione di servizio e poi un autolavaggio per consegnare al meglio la vettura e così non dover pagare eventuali multe, peraltro previste dal contratto.
La cosa si presenta meno facile del previsto: per fare rifornimento dobbiamo infatti uscire da Eugene e percorrere quasi 13 miglia prima di riuscire a rabboccare il serbatoio, mentre l’autolavaggio è proprio un miraggio. Per contro ci viene in aiuto il meteo che, nel frattempo, vede prima il cielo rannuvolarsi e poi scendere qualche piccola goccia di pioggia. Ottimo!!
Questo ci aiuterà a mimetizzare lo sporco che abbiamo accumulato nel percorso da Shady Cove a qui.
Veniamo continuamente sorpassati dai soliti autotreni carichi fino all’inverosimile di legname dal cuore rosso. Ma quanto sono grandi queste foreste per poter sopportare un prelievo così massiccio delle proprie risorse? Eh, si! L’America è proprio grande!!
Ormai siamo pronti a partire. Franco ed io ci rilassiamo mentre Antonio va a consegnare l’autovettura. Ritornerà poco dopo senza alcun addebito.
Ci prepariamo ad attendere il momento di imbarcarci sul volo che, partendo alle 13.00 ora locale, ci porterà a Salt Lake City, scalo intermedio da dove proseguiremo per Parigi.
Anch’io finalmente mi rilasso un po’. Peccato per quelle maledette steelies… Sentirne le tocche senza riuscire a portarne a riva nemmeno una… ma non finisce qui!!
Franco mi chiede di fargli una foto con la bandiera americana e io l’accontento. Chissà cosa gli frulla per la testa…
L’ora della partenza è arrivata e ci apprestiamo superare i controlli pre-imbarco. Ci prepariamo pertanto a pesare i nostri bagagli. Mentre Antonio passa liscio il controllo con 47 libbre, Franco supera il peso massimo consentito di 50 libbre (22,7 chilogrammi) di ben 5 unità. L’addetto gli fa così presente che se non riduce il peso la soprattassa è pari a 30 dollari per ogni libbra in più. Franco alla notizia scolora e si affretta a ritirare il bagaglio dichiarato togliendovi un paio di stivali e cacciandoli nel bagaglio a mano. Io, che non avevo ancora posato il mio sulla bilancia, approfittando di un attimo di disattenzione dell’addetto peso la mia sacca, che registra 3 libbre in più. Anch’io allora mi affretto a tirare via una felpa e una maglietta e a cacciarle nello zainetto, presentando con un sorriso serafico al momento del ritorno dell’addetto il peso perfetto di 50 libbre.
Anche Franco riesce a rientrare nel peso consentito così, guardandoci negli occhi e tirando entrambi un sospirone di sollievo, raggiungiamo Antonio – l’amico del giaguaro - che intanto se la rideva sotto i baffi…
Il volo per Salt Lake City, anche se di oltre 1.200 chilometri, è un normale scalo tecnico fatto con un Canadair, un aereo per le tratte nazionali. Chiaramente il velivolo non è molto grande, percui ho bisogno della prolunga per la cintura di sicurezza. Antonio alla mia richiesta alla hostess continua a ridersela sotto i baffi visto che lui, dimagrito parecchio prima di partire per questo viaggio, anche questa volta non ne ha bisogno. Mannaggia!!! Mi sa che perdo ancora la sfida con lui… ma il prossimo anno mica la va a finire così!!!
Il tempo intanto è cambiato. Ora a Salt Lake City, dopo un volo di 1.220 chilometri e 3 ore e mezza, il cielo è perfettamente limpido e il caldo del deserto si fa sentire. Come al solito i gates di sbarco e di imbarco dei nostri voli sono diametralmente opposti, così ci tocca come al solito percorrere tutta l’aerostazione prima di individuare il nostro.
Io sono un po’ nelle ambasce perché, a differenza di Antonio e di Franco – che hanno già il biglietto fatto da Claudio – il mio voucher prevede il ritiro del mio al banco della Delta. È vero che su di esso è riportato chiaramente la prenotazione del mio posto, ma questo non mi fa comunque stare tranquillo visto quello che succede con gli overbooking.
Comunque tutto è a posto e ricevo con un sospiro di sollievo la tanto sospirata carta di imbarco… anche questa volta è andata bene!!!
La partenza del volo per Parigi è prevista per le 17.10 ora locale. Il posto che mi è stato riservato è in una fila centrale, stretto tra un ragazzo e una signora e con davanti un bambino di un paio di anni che già incomincia a frignare. Però questa volta me la rido lo stesso perché neanche Antonio e Franco, che sono sistemati accanto in una fila laterale, stanno molto comodi: la parete curva e le poltrone più strette rispetto a quelle dell’Airbus dell’andata certo non li aiuta.
Prevedo che la trasvolata sarà lunga per tutti…
Ad un certo punto ci accorgiamo che l’ora del decollo è abbondantemente passata ma noi ancora non ci muoviamo. Passa così quasi un’ora e il disagio incomincia a serpeggiare fra tutti i passeggeri. Ad un certo punto il comandante dell’aeromobile tramite l’interfono comunica che, per motivi di sicurezza dovuti ad un eccesso di peso in relazione alla temperatura registrata sulla pista, l’aereo al momento non può decollare. Al fine di permettere un normale decollo chiede pertanto che almeno 7 volontari, dietro un compenso di 600 dollari e il soggiorno a cura e spese della Compagnia, scendano dall’aereo per prendere un volo il giorno successivo.
Io e Antonio a questo avviso ci facciamo piccoli piccoli, cercando entrambi di far rientrare la pancia e nascondere il sovrappeso, ma senza riuscirci...
Dopo un altro quarto d’ora solo 4 volontari si sono presentati, per rientrare però dopo altri 10 minuti. Infatti, grazie ad un provvidenziale rannuvolamento del cielo, la temperatura al suolo è rapidamente diminuita rientrando nei parametri di sicurezza e permettendo così il decollo. La saga della sfiga, come si vede, continua…
Finalmente arriviamo a Parigi. Come abbiamo guadagnato un giorno all’andata, così ne perdiamo uno al ritorno. Sorvoliamo la città prima dell’atterraggio e questo ci permette di ammirare dall’alto il cuore di Parigi: l’Arc de Triomphe, i Champs Élysées, Place de L’Étoile e Place de la Concorde si stagliano sotto di noi giocando a rimpiattino con le nuvole.
Parigi è proprio splendida, direi magica… non per niente è la città dove ho chiesto a mia moglie di sposarmi...
Nonostante il ritardo al decollo arriviamo con ben 20 minuti di anticipo grazie ad un jet stream in coda che, in alcuni momenti, è stato di ben 200 chilometri all’ora.
Finalmente siamo in Europa!!! Finalmente mi funziona il Bancomat!!! Finalmente mi funziona anche il cellulare!!!
Finalmente siamo ritornati nella civiltà…
Dopo le operazioni di sbarco ormai si è fatto mezzogiorno, così ci rilassiamo un po’ andando a mangiare un boccone presso uno dei bar dell’aerostazione. Antonio non si fa sfuggire nulla della “fauna” che popola il circondario. Quindici giorni in isolamento totale ci ha fatto salire il testosterone alle stelle…
Dopo il lauto pasto ci vuole un buon relax, anche perché il volo per Venezia parte solo alle 17.10. Antonio non se lo fa dire due volte e si abbandona finalmente ad un riposino ristoratore, visto che sull’aereo riposare è stato per tutti effettivamente impossibile (io per il bambino che ha frignato praticamente per tutto il volo e Antonio e Franco per l’angustia dei posti laterali).
A proposito… anche sul Boeing 767 ho dovuto farmi dare la prolunga… e siamo 4 a 0. Spero nel “gol della bandiera” almeno sul volo per Venezia ma me la vedo nera…
Ormai è arrivato il momento di imbarcarsi. Come a Salt Lake City il mio voucher, sempre a differenza di quelli di Antonio e Franco che hanno permesso loro di ricevere subito i biglietti per tutto il viaggio – prevede la necessità di fare il biglietto al banco dell’Air France che ci porterà a Venezia per cui soffro sempre di una certa ansietà. I miei patemi d’animo vengono in parte confermati in quanto, arrivato al banco, assisto ad una violenta litigata fra una viaggiatrice e l’addetto ai biglietti proprio per una mancata assegnazione del posto con un voucher simile al mio. Per fortuna che nel mio caso è tutto a posto e così, con la mia carta d’imbarco ben stretta in mano, riesco finalmente a rilassarmi: anche se Parigi è magnifica ed è sempre nel mio cuore, oggi me ne torno a casa.
Ora le preoccupazioni sono rivolte ai nostri bagagli… ci saranno?... non ci saranno?... a Venezia l’ardua risposta.
Finalmente siamo a bordo. Si respira quasi l’aria di casa. Un ultimo sguardo all’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi e una foto dal finestrino ad un Airbus A 321 gemello del nostro che attende l’imbarco dei propri passeggeri. Il tempo non è dei migliori, con un cielo coperto ed una pioggerella che è caduta fino a poco tempo prima; mi sa che balleremo un po’… Il volo non è molto lungo, solo poco più di un’ora e mezza per percorrere poco più di 800 chilometri.
Purtroppo l’Airbus A 321 non è della stessa stazza dell’A 330-200 dell’andata, percui ci tocca ancora una volta soffrire – noi di una certa stazza – per dei posti “leggermente” più stretti che all’andata, calcolati per far star comode solo persone anoressiche… Noi persone “robuste” ci dovremmo proprio far sentire e protestare per questa che si rivela essere una vera e propria discriminazione!!
Obesi di tutto il mondo, uniamoci al grido di: “Basta con il cibo macrobiotico!!!” – “Lasagne e pastasciutta per tutti!!! – “Polenta!!! Per chi non si accontenta!!” – “Che mondo sarebbe senza NUTELLA?”… !!
Naturalmente anche qui debbo farmi dare la prolunga… si conclude così con un secco 6 a 0 anche il girone di ritorno fra me e Antonio. Comunque spero nel prossimo campionato…
Sorvolare le Alpi, ormai già con qualche spruzzata di neve in quota, mi riempie di nostalgia di casa.
È strano; fino a poco fa sono stato con il cuore a casa con mia moglie ma con la mente all’avventura che stavo vivendo, mentre ora sia con il cuore che con la mente sono già fra le braccia di Costanza. Questo è il segnale che questa avventura è proprio finita.
Debbo anche aggiungere che alla fine anche di questi ultimi momenti non ci sono né rimpianti né c’è nostalgia per quanto fino ad ora vissuto, ma la voglia di condividere le nostre esperienze con gli amici, per farli partecipi delle emozioni e dei sentimenti che abbiamo così intensamente provato. Per non dimenticare…
Il viaggio ormai volge al termine. Stiamo sorvolando la laguna veneziana e l’aereo è ormai sul sentiero di discesa con i flaps abbassati e il carrello estratto e bloccato. Anche Venezia è magica e bellissima. Ci devo tornare con Costanza per riviverne la delicata magia delle sue calli e dei suoi canali.
Sbarcati dall’aereo io mi precipito all’ingresso in quanto Costanza ha deciso di “venirmi a prendere” (forse non si fidava che ritornassi…?). La vedo là, dietro a tutti, discreta come il suo solito e non riesco a trattenermi nel correrle incontro e nell’abbracciarla stretta stretta. Sono a casa, finalmente…
Ci rechiamo così nella zona di sbarco dei bagagli con le dita incrociate? Ci saranno? Non ci saranno?
Dopo un’attesa snervante di una mezz’oretta ecco che i primi bagagli incominciano ad uscire. Antonio e Franco recuperano i propri e si avviano al deposito bagagli voluminosi per vedere di recuperare il bazooka con le canne, mentre della mia sacca non c’è traccia. Siamo alle solite…
Passa un’altra mezz’ora e i ragazzi incominciano a scalpitare; vorrebbero lasciarmi lì ma non se la sentono e continuano a rincuorarmi con frasi del tipo: “Vedrai che prima o poi te la riconsegnano” – “Dovresti essere felice visto che i tuoi bagagli ora sono in viaggio per le Maldive e si faranno un po’ di vacanza anche loro” – “Non ti preoccupare, solo il 25% dei bagagli persi non viene più ritrovato”… e come dice il vecchio e saggio detto: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici ci penso io”… gli “amici del giaguaro”…
Sto quasi sconsolatamente per dirigermi verso il bancone dei bagagli smarriti quando viene annunciato l’arrivo di un altro carico di bagagli e questa volta, finalmente, vedo apparire sul carosello la mia amata sacca, che acchiappo al volo con un sospirone di sollievo. Anche questa volta è andata bene.
Siamo giunti proprio alla fine del nostro viaggio. Antonio e Franco, dopo aver aperto il bazooka e avermi restituito le canne, si dirigono verso il parcheggio dove hanno lasciato in custodia la macchina mentre noi prendiamo posto sulla banchina dei pullman per recarci alla stazione di Mestre, dove prenderemo il treno per Modena.
Sono contemporaneamente felice e dispiaciuto che la nostra avventura americana sia finita, ma la certezza che altre avventure del genere mi aspettano per il prossimo futuro mi rende tutto ciò meno amaro, così come stringere sotto braccio mia moglie – compagna complice, attenta e paziente, alla pari peraltro le mogli di Antonio e di Franco, di questi scavezzacolli – mi apre il cuore.
Il treno sta ormai per arrivare quando riceviamo una telefonata concitata da Franco: “Pronto Gianfranco, sei ancora in aeroporto?” – “No Franco, siamo già alla stazione stiamo per partire. Perché?” – “Peccato! No, sai, noi siamo già quasi arrivati ma ci siamo accorti di aver dimenticato il bazooka con le canne all’aeroporto” – “E adesso come fate?” – “Ci tocca ritornare indietro. Chissà se lo ritroviamo...” – “Ma dove lo avete dimenticato?” – “Sai, proprio dove ci siamo lasciati. Io ho preso il mio bagaglio credendo che il bazooka lo prendesse Antonio, che può legare la sua sacca al trolley, mentre lui ha fatto la stessa cosa con me e così lo abbiamo lasciato la!!” – “Stai tranquillo Franco vedrai che lo ritrovate…. Mi raccomando, appena avete notizie avvisatemi, così mi fate stare tranquillo. Ciao e alla prossima...…”.
Dopo un’oretta, mentre siamo in viaggio per Bologna, ci arriva una seconda telefonata di Franco che mi comunica di aver recuperato presso l’Ufficio Oggetti Smarriti il bazooka che, per fortuna, un solerte viaggiatore aveva recapitato pochi minuti dopo la loro partenza. Tutto è bene ciò che finisce bene.
Anch’io però vivo un po’ di apprensione: disfacendo i bagagli non trovo più un mulinello con la coda (quello “superstite” scampato a Franco) che avevo avvolto in alcune magliette per evitare la sua “precoce dipartita” percui telefono ai miei amici chiedendo se, per sbaglio, non fosse capitato fra i loro bagagli. Ricevuto un diniego penso subito ad un “controllo bagagli” un po’ troppo ”approfondito” ma, alla fine, mia moglie lo ritroverà sempre avvoltolato in alcuni indumenti. Sarà per la prossima volta…
Termina qui il resoconto della mia avventura americana vissuta alla grande con i cari amici Antonio “Popeye” e Franco “Pakey”. Spero di non aver tediato molto coloro che leggeranno questi scritti e mi scuso con gli appassionati pescatori per non aver potuto mettere foto di grandi e numerose catture… sarà per la prossima volta, lo prometto!!!
Oltre agli amici di cui sopra, mi corre l’obbligo di ringraziare Claudio Tagini per la professionalità con cui ci ha organizzato il viaggio (la sua “Bibbia” ne è testimone”), Scott e Rich per la professionalità dimostrata come guide. Un ringraziamento speciale con tutto il mio cuore a mia moglie Costanza, per la pazienza che ha avuto – e che continua ad avere – con questo grande , grosso ed eterno ragazzone.

P.S.: … a proposito. Volete sapere com’è andata a finire la storia della “canna perduta” di Franco?
Dopo qualche giorno ricevo una telefonata da Franco che mi confessa come abbia ritrovato la sua canna, che credeva “prelevata” indebitamente al momento del controllo da parte della dogana statunitense, ancora infilata nella sua custodia. In pratica, al momento di preparare il bazooka aveva provveduto a nastrare e a impacchettare per bene le nostre canne dimenticandosi totalmente di infilarci in mezzo la sua.

Aaahhh…. La vecchiaia è proprio carogna…

P.P.S.: ricevo da Claudio e da Scott – che riporto sotto – alcune immagini relative a catture fatte sull’Umpqua e sul Rogue da altri clienti, a testimonianza che di pesce ce n’è… eccome!!!

Arrivederci a presto… stronz@@@@sime steelies!!!




Gianfranco Pelliciari (Von Pellix)


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