USA - Alaska e Montana (parte 1)

Ovvero: due è meglio di uno! 
  Giugno 2000 di Angelo Piller (Angelo)

Partimmo in maggio, e la cosa mi creò qualche turba psicologica perché era il periodo in cui si risvegliava l’Unec. Si sa, siamo fatti per soffrire: feci in tempo a fare "l’apertura" su quelle che secondo molti sono le migliori acque europee......
 15/06/00
di Angelo Piller
el.foto Paolo di Lernia

Ovvero: due è meglio di uno!


Parte delle banda vicino alla jeep

In alcuni ristoranti degli States è possibile ordinare quello che loro considerano uno dei piatti caratteristici: Steak and Lobster. Praticamente ti servono una bella costata alla quale aggiungono, nello stesso piatto, una succulenta aragosta. Concordo, non tutti possono apprezzare un tale accostamento, soprattutto noi italiani che in cucina non abbiamo rivali. Di sicuro però, non disprezzeremmo una combinazione simile trasposta nel campo della pesca a mosca!

L'amico Claudio Tagini dell’AWA (American Western Adventures) ci lanciò l'esca mirabilmente confezionata: prima cinque giorni a pescare steelhead in Alaska, e quindi altri sei giorni di pesca a secca ed a ninfa in uno dei più famosi fiumi degli Stati Uniti, vale a dire il Big Horn nel Montana!

Bollammo subito e quello che segue è il resoconto di due settimane entusiasmanti.

Eravamo sempre noi quattro, i sopravvissuti di Alaska 1999. Coloro che volessero conoscerci meglio vadano a leggersi l’articolo precedente.

Partimmo in maggio, e la cosa mi creò qualche turba psicologica perché era il periodo in cui si risvegliava l’Unec. Si sa, siamo fatti per soffrire: feci in tempo a fare "l’apertura" su quelle che secondo molti sono le migliori acque europee, per poi doverle abbandonare quasi subito, tradendole con altri fiumi ed altri pesci.

Avevamo vissuto i mesi, le settimane e poi i giorni che ci separavano dal nuovo viaggio in crescente trepidazione e l’arrivo della "Bibbia", ovvero di una completa dispensa con la quale Tagini ci spiegava in ogni dettaglio lo svolgimento della vacanza, non fece che acuire l’ansia, tanto che qualcuno a furia di rileggerla ne imparò perfino dei passi a memoria.

Nella "Bibbia", oltre alle informazioni più o meno specifiche, si trovavano uno svariato numero di cartine geografiche comprendenti i fiumi che avremmo dovuto affrontare, con gli "Hot Spot" ben evidenziati in rosso. L’attesa, per quanto fosse una tortura, faceva già parte della vacanza perché ci faceva sognare.


THE "ITALIANS"


Una steelie dalla stupenda livrea

Dopo il pernottamento a Seattle, atterrammo a Yakutak.

Qui Regg (ribattezzato poi durante la vacanza con un’infinità di altri nomi) ci accolse calorosamente, dandoci in dotazione un "mega jeeppone" stile anni sessanta, ovvero il nostro mezzo di trasporto.

Sull’aereo facemmo la conoscenza di svariati pescatori americani, anche loro steelhead dipendenti (tanto che alcuni non fecero altro che costruire mosche per tutto il volo). Ci etichettarono subito bonariamente come "The Italians", una connotazione inizialmente prettamente geografica che con il passare dei giorni assunse per loro una valenza sempre più significativa e fastidiosa nella zona dei glutei. Niente di nuovo sotto il sole: dopo il mio terzo viaggio di pesca negli States, mi sento di affermare che qui il livello tecnico medio dei moschisti è molto basso. Diciamo che su dieci pescatori, otto sono un disastro, il nono se la cava, mentre il decimo è un professionista.

In Italia il discorso è completamente diverso: il primo è un disastro (solo perché ha iniziato settimana scorsa), quattro se la cavano dignitosamente, tre sono bravi ed i restanti due sono molto bravi. Non sto qui ad esaminare i motivi (morfologia del territorio americano/italiano ed altri…) che portano a tale diversità, rimane il fatto che le così dette guide o professionisti americani sono coloro che fanno la differenza. Solitamente è gente che pesca almeno duecento/duecentocinquanta giorni l’anno e ciò significa molto. Come ho sempre sostenuto: più peschi e più sei capace di pescare.


IL FIUME


Il Situk River

Il Situk River secondo molti è il fiume con il migliore run di steelhead di tutta l’Alaska, sia come numero, sia come taglia. Ovviamente fine aprile e maggio sono i due mesi migliori. Che non fosse un segreto ce ne siamo accorti dall’elevato numero dei pescatori, con e senza barca. D’altronde, pescare le steelhead in questo fiume è abbastanza agevole e tutt’altro che pericoloso. Anche l’acqua non era freddissima, tanto che Raffaele dopo un’accidentale ma completa immersione (mentre stava cercando di spaventare una steelhead che furibonda si era andata a rifugiare insieme alla mia mosca in un intrico di tronchi), continuò imperterrito a pescare quasi come se nulla fosse.

Il Situk nasce da un laghetto vicinissimo al Russell Fiord, scorre per un breve tratto abbastanza ostico da raggiungere, e poi forma il Situk Lake, dal quale scorre fino al mare. La caratteristica di questo corso d’acqua è quella di avere solo due punti raggiungibili con la macchina. Il primo è il take out vicino alla foce, il secondo è il nine miles bridge, cioè nove miglia all’interno del territorio, ma comunque a circa dieci minuti di macchina da "casa nostra". La portata d’acqua non è eccessiva, e peraltro noi siamo capitati in un periodo di "siccità" con i livelli bassi. In cinque giorni di pesca ci siamo trovati sotto la pioggia per meno di due ore. Niente male considerando che ci trovavamo in piena rain-forest! Quasi tutti i punti in prossimità del ponte erano guadabili cosa che ci facilitò parecchio negli spostamenti. Ma la cosa più bella era vedere le nostre splendide ragazze pinneggiare nell’acqua cristallina.

Tutta la zona del ponte, sia risalendo, sia scendendo, si presta perfettamente alla pesca delle steelhead. Uno dei tratti più allettanti è sicuramente la buca sotto il nine miles bridge. Dal ponte non è difficile vedere le steelhead che proseguono imperterrite la loro risalita o si fermano a riposare. Se si preferisce, si può prendere la barca per discendere il Situk. E’ sicuramente un’esperienza molto divertente e per niente pericolosa visto che il fiume scorre quasi sempre placido e privo di rapide. Tutt’al più alcuni passaggi risulteranno un po’ ostici per via dei rami che possono ostruire in parte la discesa della barca. Quando riteniamo di trovarci presso la "pool" giusta, si arresta la barca e ci si mette a pescare. Occorre solamente fare attenzione all’orario, in modo di arrivare al "take out" prima del tramonto. Sono nove miglia di fiume: per farle tutte senza fermarsi a pescare ci vogliono dalle tre alle quattro ore.

Nel Situk, oltre alle steelhead sono presenti iridee e salmerini. Il pomeriggio del terzo giorno lo abbiamo dedicato a questi ultimi, anche perché avevamo stabilito che per cena avremmo mangiato pesce. Una volta identificato il branco, la pesca dei salmerini non presentava grosse difficoltà: abboccavano alle stesse mosche che utilizzavamo per le steelhead.


I tre culattoni.

Ricordo perfettamente che quel giorno Raffaele, oltre ai numerosi salmerini stipati nella tasca posteriore del suo giubbino, riuscì ad allamare un numero elevato di steelhead. In pesca non ci sono restrizioni sul modo di accaparrarsi il benefico influsso della dea bendata ed io feci di tutto per propiziarmi qualche cattura in più.


UNA CASA TUTTA PER NOI

Regg e sue moglie, un’indiana di nome Shirley, furono gentilissimi: un giorno ci portarono perfino dei grossi gamberi appena pescati. Fummo poi molto fortunati perché eravamo gli unici ospiti, ed avevamo tutta la casa a nostra disposizione! La cucina era veramente ampia e spaziosa e Domenico, chef della brigata, si trovò subito a suo agio. La mattina ad un orario stabilito, Shirley che insieme al marito abitava poco distante, arrivava a farci la colazione. Più che una colazione era un pranzo che comprendeva uova con il bacon, piccoli würstel, crêpes, panini vari, marmellate, aranciate, caffè, ecc… sta di fatto che a mezzogiorno si saltava tranquillamente il pasto.

Il salotto era munito di un grosso televisore e divano "incantato", nel senso che risultava talmente comodo (o forse noi talmente stanchi) che non appena ti ci sedevi ti addormentavi e…sognavi!

C’era anche un videoregistratore con un'unica videocassetta: L’Urlo dell’Odio, un bellissimo film con Anthony Hopkins, che racconta la storia di tre disgraziati che si perdono in Alaska, inseguiti per tutta la pellicola da un gigantesco grizzly. Tutte le sere conclusasi la cena facevamo partire il film (che peraltro già conoscevamo), ma dopo nemmeno cinque minuti eravamo tutti sprofondati in un sonno letargico.

Al mattino, prima e dopo la colazione ci si dedicava alla costruzione delle mosche e degli ovetti che più ci avevano convinto il giorno precedente.


Al morsetto.

Due volte siamo andati a far la spesa a Yakutak, poco più di un paese di pescatori. Sono stati cinque giorni memorabili, tranne forse quando Raffaele schiaffò due casse di lattine di coca-cola nel freezer. La mattina dopo, il freezer e parte del pavimento sottostante avevano magicamente cambiato colore e perfino Shirley, che fece la sorprendente scoperta, mi sembrava meno pallida del solito.


TECNICA & TATTICA

La tecnica di pesca delle steelhead dipende dal tipo di acque in cui ci si trova ad affrontarle. Coloro le pescano in Canada solitamente le vanno a cercare, muniti di code affondanti, nei grandi fiumi. In questi casi non si vede quasi mai il pesce, ma si percepisce l’attacco attraverso una discreta botta sul cimino della canna.

Quando ci si trova invece a pescarle nei corsi d’acqua più piccoli, come il Sitkoh o il Situk, sarà spesso possibile pescarle direttamente a vista.


Dome a vista.

Non sto qui ad argomentare se sia più divertente la pesca delle steelhead nei fiumi con una notevole portata d’acqua o in quelli più piccoli. Entrambe le pesche sono emozionanti ed appartengono in misura uguale all’universo pam. Certo, l’amante della pesca a vista trarrà maggiore soddisfazione ad assistere allo scatto di un pesce lungo dai settanta ai cento e oltre centimetri, che va a ghermire la mosca appena lanciatagli.

Sul Situk, spesso si ha la possibilità di osservare la steelie che si vuole catturare.

L’esca fondamentale è l’imitazione di ovetto dai colori arancio, rosso e rosa. Occorre poi azzeccare anche la taglia dell’ovetto perché sovente saranno quelli più piccoli a rendere di più, con l’ovvia conseguenza di fare meno presa nella bocca del pesce.

La tecnica è semplice: si individua la steelhead e senza farsi vedere si cerca di presentarle l’artificiale davanti al muso. Uno split-shot posto a circa venti/venticinque centimetri dalla mosca ne aiuterà l’affondamento. Ovviamente la coda sarà galleggiante. Quando invece pescheremo in caccia, cioè in quelle situazioni in cui non saremo in grado di vedere la steelie, potremo fare attenzione ai movimenti della coda, o aiutarci utilizzando uno strike-indikator. E’ comunque essenziale riuscire a mantenere la così detta dead-drift, cioè l’artificiale non deve assolutamente dragare, e questo si ottiene padroneggiando la tecnica del mending. Infine, nelle grosse buche è possibile pescare con successo a scendere tipo sommersa, piombando però bene il finale. Al primo "colpetto" di cimino dobbiamo rispondere con un’energica ferrata. In questo modo ho catturato una delle steelie più argentee della vacanza.


I quattro.

Avere in canna una stealhead infuriata è un’esperienza unica. Se è vero che le fughe non potranno essere paragonabili a quelle che avvengono con gli stessi pesci nei fiumi più grandi, non significa però che la lotta sarà meno cruenta. I corsi d’acqua come il Situk sono strapieni di rami, tronchi ed un’infinità di altri ostacoli che una steelhead cerca quasi sempre di sfruttare a suo favore, e spesso ci riesce. Ricordo perfettamente quando mi misi a pescare quindici metri sopra il ponte su cui sostava il resto della brigata. I ragazzi avrebbero dovuto avvertirmi dell’eventuale mangiata della steelie. So solo che ad un certo punto non vidi più lo strike, e benché i cari "amici miei" non avessero aperto bocca, ferrai. La steelhead esplose dall’acqua, quindi partì a monte come un razzo, ma cambiò idea quasi subito ridiscendendo e spaccandomi tutto proprio sotto il ponte. Era veramente grossa, ed io mi pentii di non aver cambiato l’ultimo spezzone di finale con cui avevo già pescato parecchio.


Steelie.

Per quanto riguarda l’attrezzatura, consiglio l’utilizzo di una canna di almeno nove piedi coda otto/nove (io usavo una Scierra Blue-Water nove piedi coda otto), un buon mulinello ed una coda galleggiante. Il terminale da me adottato era uno 0,28, ma chi vuole avere qualche certezza in più può tranquillamente salire di diametro. Come ho già detto, l’esca principe era l’ovetto. Abbiamo però catturato ed avuto parecchi attacchi anche con le classiche mosche da steelhead, come la Skunk e l’Egg-Sucking- Leech e con qualche grosso ninfone nero.

Attenzione: non tutte le steelhead sono disposte a mangiare. Quelle intente a fregare non saranno interessate alle vostre mosche. Altre invece, scarteranno anche più di un metro per attaccare l’artificiale. Non dimenticherò mai quando dal ponte Raffaele sputò la cicca che cadde in acqua affondando lentamente. Prima di giungere sul fondo una grossa steelhead scartò e la fece sparire per sempre. Per quanto riguarda le statistiche, in cinque giornate di pesca abbiamo catturato/recuperato dalle dodici alle quindici steelhead a testa. Il numero dei pesci slamatisi per un motivo o per l’altro è stato elevato.


FINE PRIMO TEMPO


Il Porto.


UN PIACEVOLE FUORI PROGRAMMA

Eravamo così finalmente giunti alla fine del quinto giorno. All’indomani, verso l’una del pomeriggio, il nostro aereo sarebbe decollato per riportarci a Seattle. Ma come ci aveva detto C.Tagini, Regg organizzava escursioni di pesca in mare e così ci mettemmo d’accordo con lui, più che entusiasta, per compiere prima del volo una veloce missione in mare aperto, alla ricerca di quei "soglioloni" enormi che bazzicano il fondo di questo gelido mare.

Il mattino seguente eravamo infatti sulla sua barca a "lanciare", in trenta e più metri di fondo, un piombo di mezzo chilo, attaccato al quale penzolava un sarda innestata in un amo gigante. Dopo anni di amore e passione, mi toccò così tradire per la prima volta l’attrezzatura da mosca. Gli halibut sono pesci che assomigliano a delle enormi sogliole e che possono agevolmente superare i cento chili. Per fortuna noi ci saremo dedicati agli esemplari più piccoli. Le nostre canne, prestateci da Regg, saranno state lunghe non più di un metro e mezzo, rigide come dei pali della luce. Un leggero fremito del cimino indicava la mangiata del pesce e noi reagivamo con delle ferrate che avrebbero sradicato dal fondo l’halibut più grosso. Poi iniziava la tortura, perché, se era già tremendamente faticoso recuperare solamente piombo ed amo, tirare su un pesce da quella profondità era spossante. In mezzo all’euforia ed al casino che ormai si era accumulato nella piccola barca, riuscimmo a recuperare diversi merluzzi, halibut sui cinque, otto chili, ed a distruggere o perdere parte dell’attrezzatura che il buon Regg, adesso dubbioso, ci stava prestando. Perfino l’annoccatore si spezzò sulla testa di un grosso sogliolone!

Raggiungemmo il culmine della bolgia quando Regg raffiò improvvisamente un halibut di circa venti chili, in procinto di essere recuperato da Domenico, e lo schiaffò senza preavviso dentro la barca. Qui il pesce iniziò a sballottare come un ossesso e per un pelo due di noi non finirono in mare, mentre un terzo cadde seduto nella cassa di legno che conteneva le sardine.

Durante uno degli ultimi lanci, il solito Domenico ferrò qualcosa di diverso. Dopo diversi minuti di faticosissimo recupero ne intravidi da principio la bocca: enorme! Avrebbe potuto facilmente contenere un pallone da calcio. Si trattava di uno Scazzone Gigante e mentre veniva issato in barca, provai a fantasticare sulla taglia delle marmorate che cacciavano in questo mare!


Domenico con lo scazzone gigante da 'erezione'.


FINE?

Ora proviamo a pensare alla fine di una stupenda vacanza di pesca: non è mai bello, anzi, spesso ci si rammarica di non poter aggiungere qualche altra giornata. Per non parlare del ritorno a casa ed alla routine giornaliera. Nel mezzo del triste cordoglio contornato dal metallico e freddo suono dello scatto di serrature appartenenti a valige pronte a rigonfiarsi, ci si guardava con fasulla rassegnazione per poi esplodere con:

RAGAZZI, MA STIAMO PER PARTIRE PER IL MONTANA!!!!!!!!

YEAH, YEAH! LE VACCHE E GLI INDIANI E LE FARIO YEAH YEAH

UNA NUOVA VACANZA NELLA VACANZA!!!!!!!!

YEAH, YEAH!

Così lasciammo l’Alaska e poi una volta arrivati a Seattle salutammo anche gli amici americani che ci guardavano un po’ invidiosi; per loro la vacanza era finita, mentre per "The Italians" c’era ancora tanta acqua da conquistare…e molta fame di schiusa.

Per informazioni:


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Angelo Piller
© PIPAM.com

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