CHL - Terra del Fuoco o Regno di Eolo ?

Cile 13/05/03
di Walter Maris Brugna

Tra terra, acqua e vento.


Il vento nella Terra del Fuoco.


Perché i primi esploratori abbiano chiamato questa zona Terra del Fuoco è ormai noto a tutti. Per come l’ho conosciuta io, il nome più adatto sarebbe stato: Regno di Eolo.
Sì, perché quaggiù il vento è l’elemento dominante e a volte inquietante durante la breve stagione estiva. Una presenza così violenta, insistente e gelida che la bora triestina appare come un alito di vento fresco in una calda notte d’estate. 
Vivendo a Santiago de Chile, per me è "relativamente" facile arrivare in Terra del Fuoco. Il problema serio è dove alloggiare e come sopravviverci. 
Mi trovo a Pampa Guanaco, nel cuore della Terra del Fuoco cilena in compagnia ed ospite di Jorge e Rosa Eliana, due carissimi amici che ho conosciuto un paio d’anni fa durante un viaggio nella zona. Jorge è un ex sottufficiale della marina militare e Rosa Eliana, sua moglie, paramedico. Hanno accettato l’incarico di gestire la Posta Rural, che è l’ambulatorio medico sanitario della zona. 
La casa è a circa 10 km dal famoso (sogno di molti pescatori) rio Grande, vicino al ventoso lago Blanco e circondato da una serie di torrentelli e lagune stracolmi di trote fario di buona taglia (2/3 kg).


Il lago Blanco.


Ieri è stata una giornata tragicomica, in verità più "tragi" che comica. Volevamo arrivare nella zona chiamata Arcoiris, sul rio Grande, ma confondendo le indicazioni dateci da un amico la sera precedente (forse per troppi brindisi) abbiamo camminato per più di 10 ore, spersi nella pampa senza mai arrivare a nessun fiume, in compagnia dei guanachi e dell’imancabile Eolo.


I guanachi.


Il rio Grande.


Oggi è l’ultimo giorno di pesca della stagione e l’idea è di partire all’alba e pescare nel rio Grande "hasta la muerte", ovvero fino al tramonto, nella speranza di catturare almeno una delle grosse sea brown che risalgono per la riproduzione. Purtroppo, a causa dello sforzo di ieri, la quantità di acido lattico presente nei nostri muscoli è tale da farci restare a letto fino a mezzogiorno.


Fario del rio Grande.


Altra cattura del rio Grande.


Verso le 14 finalmente eccoci al fiume, ma con grande sorpresa ci rendiamo conto che ci sono almeno 5 van, tutti appartenenti al club di pesca di Cerro Sombrero, con almeno una quarantina di percatori sparsi lungo il fiume. 
Stanno chiudendo la stagione di pesca ed anche il loro campionato sociale. 
Ai miei occhi appaiono come l’armata Brancaleone (scusate la presunzione): entusiasti e chiassosi hanno assalito il fiume alle sette del mattino con i loro ondulanti da 20-40 gr, "monofili" dello 0,45, mulinelli giganteschi e canne che sarebbero in grado di fermare il più potente dei rimorchiatori. 
Sono arrivati durante la notte, si sono accampati e secondo la tradizione fueghina hanno già arrostito almeno cinque agnelli e una decina di carré di maiale, senza contare gli apprezzatissimi (in Chile) "choripan": pane e salamelle. Il tutto annegato (non esagero) dai robusti, legnosi e barricati Cabernet-Sauvignon cileni. Molti di loro sono completamente fradici per aver pescato tutto il giorno nell’acqua, senza il wader.


Il rio Grande in terra cilena.


Una delle meravigliose sea trout della zona.


Un po’ demoralizzati per come l’armata ha ridotto il fiume, decidiamo di socializzare e condividere un bicchiere o forse più .... non mi ricordo... ...hick!!!!!! 
Il presidente, persona molto cordiale, ci informa che la pesca non è stata delle migliori, e pare che nessuno abbia catturato prede degne di nota. Inoltre tutti devono essere al ritrovo alle 15.30, lasciandoci così il fiume tranquillo per le ultime ore di pesca. 
Decidiamo di risalire verso l’estancia Onamonte per arrivare, dopo circa un’ora e mezza a piedi, in una grande curva dalle acque profonde 8-10 mt. 
Sicuramente è qui che qualche trotone si è rifugiato per sfuggire alla feroce caccia di quelli che in Chile chiamano "ferreteros". 
Le acque del rio Grande sono di color marrone-ruggine, ma trasparenti, e ricordano il colore dei forti the indiani. La colorazione particolare è dovuta al pigmento della lenga, albero tipico della zona australe del continente americano. 
Jorge, pigro e lento, si ferma qua e là pescando, ahimé, con il suo micidiale cucchiaio tipo toby da 25 gr color rame. Anche lui è un ferretero. 
Ci separiamo e, dopo aver incontrato gli ultimi ritardatari del club, finalmente arrivo alla meta. Mi siedo vicino ad un grande tronco per riposarmi e ripararmi dal vento. Spaventati dall’armata Brancaleone, nemmeno i guanachi si fanno vedere, mentre sull’altra sponda volteggia sincronicamente, come le frecce tricolori, uno stormo di loros (piccoli pappagalli verdi). Per fortuna, grazie al vento, il loro canto stridulo e fastidioso non riesce a raggiungere i miei timpani, e nella totale solitudine contemplo la bellezza di questa terra.


Albero modellato dal vento.


All’improvviso grossi cerchi concentrici si allargano sempre più nel centro del fiume. Sicuramente qualche castoro che ha battuto la larga coda sull’ acqua per avvisare i compagni del branco di eventuali pericoli. Qui i castori sono stati introdotti dal Canada negli anni venti con scopi ancora impreciasati e, non avendo nemici naturali, hanno modificato la morfologia del paesaggio. 
Solamente di recente il governo cileno ha regolamentato la caccia a scopo di tutela ambientale. Infatti in alcuni ristoranti santiaghini vengono esibiti menù con carne di castoro. Informazione per gli enopam: ha carni rosate, morbide, gustose e saporite, simili alle carni del cuy (porcellino d’india), tanto apprezzate in Perù. Consiglio di abbinare un Malbec di Mendoza (Argentina) abbastanza giovane senza eccesso di legno e con buon tenore alcolico. 
Enogastronomia a parte, non si trattava di castori, ma di quello che sono venuto a cercare fin quaggiù: sea run brown trout. Finalmente, anche per il lettore, ecco ripetersi una "bollata", esattamente nello stesso posto. E che "bollata"! 
Ogni pescatore conosce benissimo le alterazioni fisiologiche e a volte cerebrali di questi momenti, il sangue ribolle, il cuore batte alla velocità della luce e tutto il corpo è invaso da una elettricità particolare .... Dimenticandomi del vento, del freddo, dei castori e anche di Jorge cerco disperatamente la coda galleggiante che, ahimé, è rimasta nell´auto assieme al mio (misero) kit di mosche secche. Avendo deciso di pescare in buche profonde ed allaggerirmi il più possibile, mi accompagnava solamente la T.300 ed un paio di scatole con un assortimento di streamer, zonker, matuka e le insostituibili, in Terra del Fuoco, wolly bugger. Ovviamente tutte montate su ami #2/4
Frettolosamente annodo una zonker costruita con pelo di coniglio naturale e corpo in chenille cristal nero. Senza entrare in acqua, sfilo la coda dal mulinello e dopo due falsi lanci, la T.300 con un po’ di fatica accompagna la mosca a non più di tre metri a monte della "bollata". Recupero velocemente per evitare l’affondamento, ma niente da fare. 
Al secondo lancio la zonker cade a non più di 70 cm dalla preda che, con un guizzo rapido, emerge in tutto il suo splendore, oltrepassando (come nel salto con l’asta) la mia esca e cercando di colpirla con la coda. 
Rimango fermo (meglio dire paralizzato) per vedere se ritorna alla "caccia" (anche se io lo considero un rifiuto) ma non succede nulla. Lentamente inizio il recupero e solo quando riesco a vedere la mosca mi accorgo che è seguita dalla "belva", che però cambia direzione velocemente e se ne ritorna chissà dove. Non so cosa fare e nell’agitazione del momento, francamente inusuale per me, mi ricordo di mio padre e della sua frase storica "...ricorda che la pesca è fatta di osservazione, riflessione, azione". 
Osservo, senza pescare, ma la mia bella trota non si vede più. 
Osservo, scruto, guardo e osservo ancora per cercare di capire che cosa sta cacciando, ma onestamente non riesco a vedere nessun insetto di nessun genere. Il mio oculista dice che godo di buona vista, sarà vero? 
Dopo dieci minuti (e almeno tre sigarette) eccola riapparire, però un po’ più al largo. Ovviamente è disturbata, nonché maliziosa. Tento nuovamente dopo aver annodato una matuka classica. Un paio di lanci e lei spazientita cerca la profondità. 
La cosa si ripete per altre due volte, ma niente da fare. 
Quando smetto di lanciare la pesante coda lei risale sempre più al largo e ricomincia a cibarsi, non so di cosa, a cadenza regolare. Una "bollata" ogni trenta secondi. 
Nel frattempo arriva Jorge, gli spiego ciò che accade e, per cortesia, lo invito a provare con il suo ondulante. 
Con un gesto nobile ed eloquente Jorge appoggia la canna al tronco dicendomi: "La tua è una pesca nobile, non voglio disturbarti" e sedendosi aggiunge " ... mi piacerebbe imparare la tecnica della pesca a mosca". 
Mi siedo anch’io e, assieme a un grande amico, ammiro la pinna dorsale di un pesce che può essere superiore ai 5/6 kg.


Jorge.

Dopo qualche istante Jorge mi dice: "Non insistere, per esperienza personale ti garantisco che è possibile pescarla solamente quando sarà buio completo, lasciala tranquilla". 
La terra del Fuoco è ormai priva di luce e a malapena continuo a vedere i cerchi concentrici allargarsi. Decido di entrare in acqua e, liberata dal mulinello, la rossa T.300 galleggia leggera. Tre falsi lanci e via. Accompagnata delicatamente da Eolo, la mia woolly bugger di colore blu scuro con molto flashabou sulla coda, cade a due metri dalla trota. Solo il baking accompagna il mulinello. 
Lascio affondare senza recuperare e dieci secondi dopo un’impercettibile vibrazione della canna mi avvisa che qualcosa ha abboccato!!! 
Ferrata lunga, portando la canna dietro le spalle e finalmente si comincia a lottare: guizzi velocissimi, salti impressionanti, che fanno apparire Serghei Bubka un principiante, e ricadute fragorose rompono il silenzio del rio Grande. Improvvisamente cerca la profondità e, come se fosse impigliata in qualche ramo, totalmente immobile, mi costringe a non forzare esageratamente. 
Ah, dimenticavo che il leader, artigianale e di mia costruzione, è lungo non più di un paio di metri con un diametro dello 0/35 (sì è vero, qui non si va tanto per il sottile). 
Niente da fare, non molla. 
Jorge si avvicina e, con un sorriso strano, dice: "Tienila in tensione più che puoi, perché se gli concedi troppo va dove vuole e in questa buca sicuramente ci sono rami e tronchi". 
Aumento la tensione e finalmente comincia ad abbandonare la profondità. 
Ci vorranno venti minuti prima di poterla vedere e ormai esausta si mette su un fianco concedendosi totalmente. 
É un esemplare maschio di sea brown di sette kg. 
L’ azione si conclude con la rituale foto (dallo scarso risultato), e con il rilascio della "belva".
Riflettendo, non mi resta che ringraziare mio padre per avermi dato tanti consigli sulla pesca, l’amico Jorge cosí diverso da me nello stile, ma con la stessa nobiltà (forse diventerà un "mosquero"), la simpatica e cordiale Rosa Eliana che ci ha coccolato con il suo pane fatto in casa e le torte che evocano sapori antichi e lontani, e per finire Eolo: compagno quotidiano, non sempre gradito, durante le quattro settimane di folle pesca, ma soprattutto ottimo alleato dell’ultimo lancio della stagione di pesca nel suo regno.

A notte fonda ... la 'belva' !


Walter Maris Brugna


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