CHL - Cammino a Caleta Huellehue

Cile Novembre 2009


Testo e foto di Federico “Pescaragni” Dell’Aste


La prima volta che ho sentito parlare del rio Huellehue è stato davanti al camino della mia vecchia casa di Entre Lagos, mentre sorseggiavo un vino conversando con Josè Luis, amico da tempo e compagno della mitica avventura del rio Picacho.
L’idea gliela aveva data un suo vecchio professore che sembra avesse passato diverse vacanze accampandosi lungo le rive del fiume, raccontando di una terra antica e di uno specchio d’acqua generoso di trote. Il vecchio pescatore era solito prendere una guida per affrontare le 5 ore di camminata che separavano Rio Negro, nella provincia di Osorno, fino alla parte finale del fiume Huellehue.
Una piccola diversione: la valle Huellehue fa parte della riserva Mapuche di Mapu-Lahual, una terra ancora molto ben conservata dove ‘el consejal’ delle famiglie indigene, aiutate dal WWF, si sono opposte fin ora a ogni opera di ‘sviluppo’ invasiva da parte dello stato. Sono state bloccate quindi tutte le possibilità di costruzione di una rete stradale; la zona permane totalmente isolata e raggiungibile solo via mare o lungo improbabili sentieri nella foresta, percorribili solo da guide esperte o da dissennati come il sottoscritto e il Greg, un amico francese ex-rugbista conosciuto nelle bettole di Valparaiso. Era appunto il totale isolamento che mi faceva presagire un buon risultato alieutico.
Come tutte le belle avventure bisogna aspettare che il tempo fosse stato propizio.
Arrivato a Valparaiso, dove mi fermo sempre qualche giorno a salutare gli amici, salta fuori che il sopracitato Greg è momentaneamente disoccupato; da lì a invitarlo a conoscere un po’ di ‘sur’del quale tanto gli ho parlato, il passo è stato breve. Il tipo, una delle poche persone che non si tira mai indietro, accetta volentieri: le alternative che gli propongo sono 14km di scogliera nel parco di Puyehue, il raggiungimento di una banda di scalatori nell’alto valle di Cochamò oppure il cammino a Huellehue.
Optiamo per la seconda possibilità.
Prima però devo fare da guida a due pescatori di Santiago e regolare alcune cosette. Giusto il tempo che serve per allenarsi un po’.
Josè Luis non può venire, problemi di lavoro, quindi per l’avventura rimaniamo in due. Dobbiamo ripartirci i pesi: tenda,sacchi a pelo,cibo,suppellettili e attrezzatura da pesca: alla fine lo zaino è bello pesante,circa 15kg a testa. Il percorso che scegliamo non parte da Rio Negro che è il lato Est, ma da Bahia Mansa, che è il lato Nord, ossia della costa.
Da Entre Lagos sono 120km con l’Indomita (la mia Toyota 4x4), per arrivare a Caleta Tril-Tril, dove comincia il sentiero di 16 km. Ottenere le informazioni non è facile. Non incontriamo nessuno che ci possa indicare dove comincia la via giusta e a furia di tentativi, ci perdiamo un paio di volte. Torniamo indietro consci dell’essenzialità di un’indicazione corretta, anche perché abbiamo camminato tre ore inutilmente.
Ci fermiamo davanti a una casa dove e’ parcheggiata una jeep con targa argentina, in giro non si vede altra anima viva. Ne escono due signore molto gentili, entrambe di Buenos Aires che non sanno bene dove cominci il cammino, ma conoscono chi può indicarcelo; nel frattempo ci invitano a prendere un caffè con loro. Accettiamo volentieri,ormai è troppo tardi per rimettersi in marcia; durante le presentazioni arriva anche un altro signore, Horacio, argentino anche lui e con la particolarità di essere senza il braccio destro. Gli chiediamo subito se conosce l’entrata al sentiero e lui risponde che sarebbe stato felice di mostrarcelo dopo il caffè.
Terminati i convenevoli prendiamo l’Indomita e ci avviamo con Horacio per una strada per soli 4x4 fino ai piedi di una ripida collina; parcheggiamo in un prato e ci ’arrampichiamo’ fino al bordo della foresta dove ci appare l’inizio di una via abbastanza ben marcata. Ora che sappiamo il posto torniamo indietro per accamparci sulla spiaggia di Tril-Tril.

Spiaggia di Tril Tril

lungo il ritorno Horacio ci invita a conoscere Mike Tallion,primo abitante della strana colonia di argentini e unico che vi passa tutto l’anno. La casa è tutta di legno e molto accogliente, con un bellissimo salotto rustico e una vetrata che dà sulla vista mozzafiato della baia.

La costa all’inizio del sentiero

Il gentilissimo Mike ci spiega un po’ le caratteristiche del sentiero, mentre ci serve il Mate, la tipica infusione d’erba che è un po’ come il tè per gli inglesi. Facciamo una bella chiacchierata sulla sostenibilità dello stile di vita consumistico e di come sia più visibile l’impatto dello spreco ai confini con le terre vergini, e infine ci troviamo abbastanza d’accordo sul fatto che i Mapuche stanno adottando una buona politica di conservazione. Ci salutiamo con l’invito di Mike a lasciare l’Indomita nel suo giardino per quella che sarà la durata dell’escursione.
Ci accampiamo in un prato al lato del torrente che sfocia alla spiaggia e poi prepariamo una buona dose di lenticchie con la salsiccia: l’indomani avremo bisogno di tutte le nostre energie.
Ci svegliamo alle otto; in un’ora è tutto pronto per partire. Parcheggiamo in una pendente al lato della strada davanti alla casa di Mike…si rivelerà un errore potenzialmente molto fastidioso.
Bussiamo per salutarlo e lui ci invita a colazione; le ultime chiacchiere prima della partenza riguardano le dritte per evitare di perdersi in alcuni passaggi poco chiari del cammino. Si parte!
Gli zaini sono pesanti e la prima salita si fa subito sentire; ciò nonostante teniamo un buon ritmo per tutta la salita. Raggiunto il primo piano ci fermiamo per uno spuntino a base di empanadas scaldate con un fuoco di fortuna; l’ultimo mese di piogge hanno reso il sentiero un pantano che ci costringe spesso e volentieri a saltare da una radice all’altra.

Greg sul sentiero

La foresta è molto fitta ed è impossibile orientarsi con il sole; il continuo sali-scendi è estenuante e ogni incrocio con le tracce dei boscaioli o degli animali sembra un invito a perdersi. Per fortuna dopo un paio d’ore incontriamo un ragazzo Mapuche a cavallo che si sta dirigendo a Maicolpuè, il primo villaggio costiero dopo baia Tril-Tril: ci spiega che la strada è ancora lunga, ma basterà seguire le orme dei suoi cavalli per non rischiare di perdersi.

La baia di Maicolpuè

Continuiamo a camminare, il fango rende ogni passo estremamente faticoso e il sentiero sembra non finire mai; i 15 kg di zaino cominciano a farsi sentire. In più Mike ci aveva avvisato che a poco più della metà del percorso avremmo incontrato un torrente da attraversare a guado, ma dopo 4 ore ancora non se ne vedeva traccia. Comincio ad aver paura di aver tentato qualcosa di troppo azzardato per la mia condizione fisica.

Il sottoscritto

A un tratto il lungo piano che ci accompagna da un po’ diventa una ripida discesa...sembra impossibile che il tipo a cavallo sia riuscito a passare di qua, ma i segni degli zoccoli sono freschi e inequivocabili; deve essere un maestro della cavalcata. Venti minuti dopo, spesi ruzzolando quasi sempre nel fango, arriviamo al letto del torrente: il rio Pitril.

Una delle tante salite e l’ultima salita nel fango..

Dobbiamo attraversare a piedi nudi e riconosco che e’ un vero piacere levarmi gli scarponi di cuoio: stupidamente non mi sono messo due paia di calzini e le scarpe dure mi hanno causato due vesciche nei talloni. Non so come faccia Greg con le sue scarpe da trekking basse!

Le scarpe di Greg e il fango

Finalmente facciamo una pausa: mangiamo un po’ di tonno e pane e beviamo l’ultima acqua. Prima di bere l’acqua del fiume vorrei chiedere ai coloni se questa è potabile. Ripartiamo e il peso insieme alle vesciche rendono ogni passo dell’ultima salita un vero tormento.
I tornanti scavati nella terra hanno un fondo di 30 cm di fango e sembrano salire fino al cielo. Ci vuole un’altra ora per arrivare in cima dove, se Dio vuole, incontriamo un cartello che ci indica l’ultimo incrocio per caleta Huellehue, tutto in discesa!
Ormai mi tremano le gambe e appena arriviamo in vista della valle, mi tolgo lo zaino e mi siedo: non ne posso più, le spalle e i piedi mi fanno un male cane, abbiamo fame e una gran sete e il solo pensiero di dovermela rifare per tornare indietro mi sembra il peggior incubo.

La vista della Caleta Huellehue

Alla fine con le pause ci abbiamo messo sette ore. La valle che ci si presenta è ampia ed è circondata da foresta nativa, anche se di fronte a noi si vedono i segni di un grande incendio con gli scheletri dei tronchi bruciati; il fiume, siamo vicini alla foce, presenta un lento corso e un colore scuro, torbato, simile ai fiumi dell’isola grande di Chiloè. Il tutto sembra un tuffo nel 19° secolo.
Ci fiondiamo letteralmente sulla prima casa che vediamo, abbiamo una sete del diavolo. Dopo l’acqua, la seconda domanda è per sapere se c’è una lancia disposta a portarci indietro via oceano: niente da fare fino a lunedì, che sarà tra tre giorni e dipenderà dal tempo, visto che è prevista burrasca; pazienza, al ritorno non ci voglio neanche pensare.
La famiglia che ci apre la porta si chiama Llancar, ed è composta da un numero non ben precisato di membri, di cui alla fine conosceremo il capostipite, la signora che ci farà assaggiare la cucina tipica, tre figli e una figlia con nipote. Ci offrono pasti a 4 euro a testa e un giardino dove accampare; accettiamo di buon grado e gli diciamo che approfitteremo anche della cena ( abbondante..speriamo..).
Il tempo di armare la tenda e chiedere a che ora si mangia, poi mi avvio con la canna da mosca a fare due lanci dalla sponda vicino alla casa; sono stanchissimo, ma la curiosità è tanta. Non prendo nulla, ma faccio a tempo a vedere una bella iridea sul kg sotto i piedi, vicino ad un tronco.
Tornando indietro conosciamo due istruttori di sopravvivenza, mandati dal governo a fare un corso per i nativi: mi fa un po’ sorridere l’idea che questi tipi abbiano la pretesa di insegnare a sopravvivere agli indios che popolano questa terra da millenni.
E’ tempo di mangiare.
La cena consiste in una zuppa di stomaco di agnello e in alcune empanadas di loco, una conchiglia di roccia squisita e ormai molto rara in quasi tutto il Cile. Il sapore della zuppa è forte, ma con la fame che ho mi sembra il piatto più prelibato di tutta la mia vita; durante la mangiata chiacchieriamo con i nostri ospiti che ci raccontano della vita isolata, dell’assenza di elettricità, della durezza del clima, ma di come tuttavia sia necessario conservare l’ambiente per continuare a vivere: gente antica, che vive e ama la terra in modo autentico, non come tanti impiastri di ambientalisti che si riempiono la bocca di cose di cui non sanno nulla.
Ma lasciamo perdere va….
E’ notte, ci aspettano un po’ di pisco (il liquore cileno), una delle sigarette razionate (ne abbiamo portate poche) e il tanto agognato riposo. L’indomani mi aspetta la remata per risalire il fiume con la barca che Nelson, uno dei figli, si è offerto di prestarmi.
Mi sveglio di buon ora, ma la stanchezza mi fa indugiare un bel po’ nel tiepido comfort del mio sacco a pelo; sveglio il Greg e dopo un breve spuntino saltiamo in barca e mi preparo alla pesca: monto una coda sinking tip e la mia mosca tuttofare ”San Juan” su un terminale corto dello 0,25. Metto il Greg ai remi e comincio a lanciare verso riva in prossimità dei tronchi, cercando qualche fario nativa. Purtroppo il mio accompagnatore, uomo di montagna, ai remi è un disastro e comincia a zigzagare, tanto da rendere impossibile la pesca.
Decido di prendere il suo posto e spiegatogli brevemente come pescare alla "trainetta", gli passo la canna e comincio a risalire a buon ritmo il corso del fiume: il paesaggio è maestoso e trasmette un senso di isolamento reale. Nonostante ci sia qualche casa qua e là, non si vede anima viva; bordeggio il lato più boscoso e all’apparenza più profondo, finalmente dopo pochi metri ecco la prima abboccata decisa: Greg non ha mai pescato in vita sua e dopo poco la trota si slama; gli spiego che la linea deve sempre stare in tensione e ripartiamo. Nell’ora e mezzo che sto’ ai remi catturiamo diverse trote iridee di modesta taglia, più un paio di belle fario, la più interessante di poco sopra al chilo.

Una trota di Greg...

Arriviamo fino a una radura con una casa e un piccolo affluente, da li lascio i remi al mio socio dicendogli di lasciarsi andare con la corrente e di mantenere la barca alla giusta distanza. Passano 5 minuti e un nuvolone carico di pioggia appare minaccioso da dietro la montagna: comincia un vento forte e tutto lascia presagire che ci sarà un acquazzone degno della Patagonia; penso che per il momento la pesca è rimandata.
Ritorno ai remi e mi faccio una bella sgaloppata di oltre un’ora remando contro vento; ho la giacca, ma senza i pantaloni da pioggia non ho voglia di bagnarmi il sedere.
L’impegno dà i suoi frutti e l’acqua ci investe solo dieci minuti prima dell’arrivo; ormeggiamo e torniamo alla casa.
Ci aspettano una zuppa di mariscos e una cruditée di erizos.
Nel pomeriggio ci dirigiamo verso la foce. Nelson ci ha detto che è più facile incontrare prede interessanti in quella parte di fiume, in più sono curioso di vedere com’è l’uscita in mare per via delle onde: in caso di mareggiata l’unica via di ritorno è la terra.
Il vento è fastidioso, trascina la barca e rende le manovre difficili, tanto che rimetto Greg in pesca e mi dedico ai remi; dopo circa mezzo chilometro il fiume prende l’aspetto di una laguna salmastra con un isolotto al centro. Mi accorgo che il fondo è molto basso e avverto il mio socio di recuperare un po’ di coda per evitare che si impigli la mosca; a metà del recupero si blocca e io penso all’inevitabile incaglio, ma la coda gli corre tra le mani e comincia a sbraitare che qualcosa di grande ha abboccato…con la coda dell’occhio vedo saltare alla mia sinistra una trota sui sessanta centimetri,…sembra una sea-run. Gli dico di passarmi la canna, in quanto senza esperienza potrebbe rompere la lenza facilmente. L’energia delle sea-run è nota e mi ci vogliono quasi dieci minuti di salti, fughe e ripartenze per averne ragione. E’ stupenda, la stimo sui due chili e mezzo. Scatto la foto di rito e mi rimetto ai remi.

...e una delle mie

Voglio arrivare alla spiaggia e vedere se l’oceano ci sarà amico, anche perché l’idea della camminata di ritorno continua ad essermi indigesta.
Il vento in prossimità dell’oceano si fa ancora più forte e forma un’onda di mezzo metro che praticamente non mi permette di avanzare; dandoci dentro al massimo delle mie possibilità riesco a raggiungere una piccola insenatura e a ormeggiare vicino a un tronco.
Siamo a trecento metri dalla foce e decidiamo di continuare a piedi; bordeggiamo la riva che con la bassa marea ci permette agevolmente di arrivare alla spiaggia di fronte alla quale, dall’altro lato del fiume, si staglia la scogliera e la lunga spiaggia oceanica che delimita la foce.
Lo scenario è impetuoso, ma le onde di due metri sono inequivocabili: ritornare in lancia non sarà possibile. Un sospiro accompagna la decisione di affrontare la camminata del ritorno.
Il vento ora è a favore. Non è difficile controllare la barca e finalmente tocca a me pescare. Comincio una serie di lanci sondando tutti gli ostacoli della riva: l’acqua è scura e non riesco subito a capire a che profondità pescare. Dopo una cinquantina di metri riesco a catturare solo una piccola fario sui trenta centimetri. Normalmente le fario vivono vicino ai tronchi sommersi, ma qui questa regola sembra non valere. C’è molto vento, il che rende difficile il lancio di precisione, decido quindi di spostarmi più a centro canale, dopotutto Greg, il trotone, lo ha incannato in acque libere.
Siamo ormai vicini al molo e la mia scelta di pescare il canale sembra sia stata sbagliata, quando, dopo un paio di strippate un violento strattone quasi mi toglie la canna di mano: mi accorgo subito che si tratta di una discreta preda. Rispetto alla cattura precedente non salta e guadagna subito il fondo con un paio di sfuriate che mi fanno uscire la coda fino al backing. E dire che non pesco proprio leggero, visto che monto una dieci piedi coda otto,ma mi ci vogliono altri dieci minuti per averne ragione: è un’altra sea run, della stessa taglia della precedente, con l’unica differenza che questa è un maschio. Sono soddisfatto, la pesca è finita.
Torniamo alla casa e durante una cena di curanto a base di patate, frutti di mare e pesce affumicato, avvisiamo i nostri ospiti che partiremo l’indomani, via terra dopo colazione. Nelson ci dice che anche lui, il giorno dopo, farà la camminata: visto che c’è mare, deve far da guida ai “famosi” istruttori di sopravvivenza che hanno paura di perdersi…ci guardiamo e ci scambiamo un sorriso, visto che due gringos ce l’hanno fatta da soli.
Verso le due di notte veniamo svegliati da una tormenta; la tenda si sta letteralmente sollevando da terra per il vento e comincia a filtrare pioggia; usiamo i materassini gonfiabili per sostenere le stecche ed evitare che si infradici tutto. Non ne ho nessuna voglia, ma devo indossare l’impermeabile e uscire nella notte per fissare più tiranti ed evitare che il telo antipioggia si appoggi alla tenda e lasci filtrare acqua: sembra un inferno, ci sarà un vento a cento all’ora e cadono scrosci d’acqua che sembrano gettati con un secchio. In venti minuti fisso tutte le cordicelle e rientro: sembra che regga ma dormire, per ora, è impossibile. Poi, poco a poco, la calma ritorna.
La mattina prepariamo il tutto. Io, questa volta, non mi dimentico le due paia di calzini anche perché le vesciche mi fanno ancora male. Dopo un’ abbondante colazione mentre salutiamo la famiglia Lancar, la signora ci regala dei panini per la camminata: li ringraziamo di cuore, sono stati molto accoglienti e gentilissimi, parte integrante di questa bella avventura.
Mi sento bene, i dolori e l’acido lattico della prima camminata sono appena percettibili e dopo la prima salita che facciamo in mezz’ora di buon ritmo, scompaiono col riscaldamento: nonostante la fatica e il fango, con l’allenamento, il tormento dell’andata si sta trasformando in una piacevole camminata.
Il ritmo è decisamente più rapido dell’andata. Dopo due ore e mezzo siamo già sulla cima dell’orribile salita dopo il rio Pitril. Mi sembra impossibile tenere questo ritmo dopo soli due giorni su quella che mi era sembrata la via più tosta di tutta la mia vita. E pensare che la pioggia della notte ha reso il sentiero ancora più scivoloso e impantanato.

La Barra

Alla fine, dopo due sole pause e venti minuti di acquazzone finale, raggiungiamo l’Indomita e la casa di don Mike in cinque ore di cammino, almeno due in meno della prima volta. Niente male ma ugualmente sono esausto, sudato, sudicio e affamato: sogno solo una doccia e una bistecca. Don Mike ci saluta e ci invita a un caffè ma noi ringraziandolo, rifiutiamo. Gli raccontiamo brevemente come è andata e che è ora di tornare a casa…ma non è ancora finita!
Con la pioggia, il prato si è fatto molto scivoloso e nella manovra con l’Indomita mi ritrovo di traverso sul bordo della strada, con i differenziali che appoggiano e il rischio di capottare nella scarpata. Non è un pericolo mortale, ma per l’Indomita sarebbe la fine. Mike mi presta una pala e cerco di liberare il differenziale e sostenere un po’ la ruota ma non c’è niente da fare, senza l’auto bloccaggio riesco solo a scivolare ancora.
Serve aiuto. Vado a cercare qualcuno, sono sfinito e allo stesso tempo preoccupato. Per fortuna, dopo pochi metri incontro una coppia di argentini con una Land Discovery e gli chiedo se gentilmente possono aiutarmi a tirare l’Indomita fuori dall’empasse. Con mio grande sollievo acconsentono e grazie al cavo d’acciaio, qualche badilata, e al fatto che il tipo tiene doppio differenziale antibloccaggio, riusciamo a liberare la mia indomita.
Ora si che i saluti sono definitivi, da don Mike, dalla baia Tril-Tril, dalla bella avventura alla Caleta Huellehue...fino a quando mi verrà l’idea di un’altra girata da quelle parti...


Federico Dell’Aste


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