La Gresse
20/07/09 di Roberto Salvatori
Questo aneddoto è dedicato a mio nipote Gabriele: che possa avere lo stesso amore per la natura, e ancor di più per la pesca, di suo nonno. Visto come osserva la mia scrivania, con quei cassetti pieni di penne colorate, di piume e peli, di oggetti strani e luccicanti, di fili, metalli, raccoglitori, scatoline, tanto attraenti quanto per lui pericolosi, e per questo ancora più affascinanti, penso sia sulla buona strada. Spero vivamente di lasciargli in eredità i fiumi più puliti di come li ho vissuti io.
La Gresse non è un fiumone, come mi piace ricordarlo, ma un torrentello che scorre accanto a Vif, ormai a fondo valle, prima di immettersi nell’Isere.
La nostra scuola, era a metà strada tra Place de la Mairie ed il centro sportivo comunale, dove il venerdì si faceva allenamento per la partita di rugby della domenica mattina.
Dalla nostra aula (credo fosse la terza o quarta elementare) al secondo piano, attraverso i filari di platani e gelsi che ne seguivano tutto il corso, si scorgeva il torrente. Buche, acqua che sbatte contro massi spumeggiando, raschi scintillanti al sole, piccole correnti laterali, un diversivo per me talmente attraente, da non udire a volte i richiami del maestro, Monsieur Cocu.
Sosia di Gino Cervi nei film girati con Fernandel, eterna giacca di velluto marron, su una camicia a grossi quadri, con un foulard annodato a mo’di cravatta. La sua voce stentorea mi richiamava all’ordine con un bel “torna tra noi” e di malavoglia stornavo lo sguardo prestandogli attenzione.
L’unica volta, in cui lo notai vestito diversamente (con camicia bianca e cravatta), fu all’acquisto della sua prima auto, una Renault 4cv modello 1954 grigio fumo. Penso pure che i suoi mustaches si siano allungati in quel periodo.
Ma quei pochi pescatori che scorgevo, muniti di canna lunghissima in bambou, epuisette a tracolla, stivaletti sotto le ginocchia, casquette sulle ventitré, e la solita sigaretta agli angoli della bocca, mi affascinavano incredibilmente.
In quel periodo abitavamo al terzo piano di una casa in rue Champollion, sopra l’appartamento del postino del paese, monsieur Girardin.
All’ingresso proprio di fronte al portone sempre aperto, una larga rampa di scale portava ai piani superiori. Sul lato destro si intravedeva il ripostiglio quasi sempre aperto dove il portalettere depositava le sue biciclette e...la sua attrezzatura di pesca.
Tre o quattro canne, appoggiate alla parete, con a lato una vecchia giacca e i cestini in vimini, enormi!
Sposato, con quattro figli (due dei quali miei compagni di classe), magro, allampanato, con la gitane papier mais sempre in punta di labbra, i denti ingialliti dal fumo e forse una testa più piccola della norma, monsieur Girardin era per me vera fonte di sogni e desideri.
Per mia fortuna nessuno dei suoi figli sembrava mostrare alcun interesse alla pesca, ed un bel giorno di fine giugno, prima della chiusura delle scuole, feci il grande passo. Entrai da lui e gli chiesi: ” Posso accompagnarti la prossima volta che vai a pesca monsieur Emile?”
“Certamente Bebert, se prometti di non combinare guai!”
E fu così che il sabato pomeriggio, ognuno munito con una lunga canna (la mia in spalla), con il sottoscritto fiero e teso come un soldatino di piombo, ci incamminammo verso il fiume, a poche centinaia di metri da casa.
Certi ricordi restano vivissimi nella memoria, altri, forse anche molto più importanti, te li dimentichi senza un motivo logico e coerente. Questo presumo rimarrà indelebile.
Monsieur Girardin cominciò con una calma snervante a srotolare la lenza avvolta appena sotto il cimino della canna. Prima la sua, poi la mia.
La lenza, in nylon, era lunga quanto la canna. Un metro sopra l’amo era posizionato un galleggiante multicolore, più grosso di un tappo di bottiglia di spumante che assomigliava ad una vera trottola.
Monsieur Girardin infilzò un verme sull’amo, poi mi passò la canna dicendomi di pescare lì, proprio di fronte a me. Era una buca poco profonda, lunga forse quatto, sei metri e larga due o tre. Rimasi estasiato a rimirare il mio “bouchon” ondeggiare, scender a valle, risalire fin quasi sotto i primi sassi, fermarsi e quindi ripartire radente un muro di sostegno
Osservavo i passanti sulla strada di fronte a noi, sperando che qualche mio amico mi notasse: stavo pescando! Poi, non ricordo come, cercai in acqua la mia trottola. Non la vedevo più, né a monte, né a valle. Sparita!
Chiamai monsieur Emile: “ ho perso il galleggiante! ” Lui posò la sua canna a terra e venne da me. Gli passai la mia canna che sollevò prontamente indietreggiando.
“ tieni Bebert, senti “, me la riconsegnò.
E sentii la canna pesante che si piegava; non capendo cercai di sollevarla e fu allora che lo vidi!
Un pesce, per me enorme, luccicante sott’acqua che guizzava da un punto all’altro della buca, ed io a rincorrerlo, mentre monsieur Emile mi osservava. Percepii di iniziare a tremare. Fu allora che monsieur Emile mi disse: “Indietreggia lentamente!”
Indietreggiai, camminando con gli scarponcini in acqua.
Poi, non so come, sul greto, qualcosa di bellissimo, saltava, e si dibatteva.
Con calma, monsieur Emile estrasse dall’epuisette ( mi spiegò poi) la matraque à poissons e…..tac, un solo colpo sulla testa e il pesce non si dibatteva più.
Sarebbe stata la mia condanna: Dal MORBO, da allora, e di anni ne sono trascorsi tanti, tranne qualche sporadica sospensione, vedi pubertà e prime ragazzine, non sono mai più guarito.
E’ quanto mi auguro: contagiare un giorno mio nipotino!
© PIPAM.org
La Gresse non è un fiumone, come mi piace ricordarlo, ma un torrentello che scorre accanto a Vif, ormai a fondo valle, prima di immettersi nell’Isere.
La nostra scuola, era a metà strada tra Place de la Mairie ed il centro sportivo comunale, dove il venerdì si faceva allenamento per la partita di rugby della domenica mattina.
Dalla nostra aula (credo fosse la terza o quarta elementare) al secondo piano, attraverso i filari di platani e gelsi che ne seguivano tutto il corso, si scorgeva il torrente. Buche, acqua che sbatte contro massi spumeggiando, raschi scintillanti al sole, piccole correnti laterali, un diversivo per me talmente attraente, da non udire a volte i richiami del maestro, Monsieur Cocu.
Sosia di Gino Cervi nei film girati con Fernandel, eterna giacca di velluto marron, su una camicia a grossi quadri, con un foulard annodato a mo’di cravatta. La sua voce stentorea mi richiamava all’ordine con un bel “torna tra noi” e di malavoglia stornavo lo sguardo prestandogli attenzione.
L’unica volta, in cui lo notai vestito diversamente (con camicia bianca e cravatta), fu all’acquisto della sua prima auto, una Renault 4cv modello 1954 grigio fumo. Penso pure che i suoi mustaches si siano allungati in quel periodo.
Ma quei pochi pescatori che scorgevo, muniti di canna lunghissima in bambou, epuisette a tracolla, stivaletti sotto le ginocchia, casquette sulle ventitré, e la solita sigaretta agli angoli della bocca, mi affascinavano incredibilmente.
In quel periodo abitavamo al terzo piano di una casa in rue Champollion, sopra l’appartamento del postino del paese, monsieur Girardin.
All’ingresso proprio di fronte al portone sempre aperto, una larga rampa di scale portava ai piani superiori. Sul lato destro si intravedeva il ripostiglio quasi sempre aperto dove il portalettere depositava le sue biciclette e...la sua attrezzatura di pesca.
Tre o quattro canne, appoggiate alla parete, con a lato una vecchia giacca e i cestini in vimini, enormi!
Sposato, con quattro figli (due dei quali miei compagni di classe), magro, allampanato, con la gitane papier mais sempre in punta di labbra, i denti ingialliti dal fumo e forse una testa più piccola della norma, monsieur Girardin era per me vera fonte di sogni e desideri.
Per mia fortuna nessuno dei suoi figli sembrava mostrare alcun interesse alla pesca, ed un bel giorno di fine giugno, prima della chiusura delle scuole, feci il grande passo. Entrai da lui e gli chiesi: ” Posso accompagnarti la prossima volta che vai a pesca monsieur Emile?”
“Certamente Bebert, se prometti di non combinare guai!”
E fu così che il sabato pomeriggio, ognuno munito con una lunga canna (la mia in spalla), con il sottoscritto fiero e teso come un soldatino di piombo, ci incamminammo verso il fiume, a poche centinaia di metri da casa.
Certi ricordi restano vivissimi nella memoria, altri, forse anche molto più importanti, te li dimentichi senza un motivo logico e coerente. Questo presumo rimarrà indelebile.
Monsieur Girardin cominciò con una calma snervante a srotolare la lenza avvolta appena sotto il cimino della canna. Prima la sua, poi la mia.
La lenza, in nylon, era lunga quanto la canna. Un metro sopra l’amo era posizionato un galleggiante multicolore, più grosso di un tappo di bottiglia di spumante che assomigliava ad una vera trottola.
Monsieur Girardin infilzò un verme sull’amo, poi mi passò la canna dicendomi di pescare lì, proprio di fronte a me. Era una buca poco profonda, lunga forse quatto, sei metri e larga due o tre. Rimasi estasiato a rimirare il mio “bouchon” ondeggiare, scender a valle, risalire fin quasi sotto i primi sassi, fermarsi e quindi ripartire radente un muro di sostegno
Osservavo i passanti sulla strada di fronte a noi, sperando che qualche mio amico mi notasse: stavo pescando! Poi, non ricordo come, cercai in acqua la mia trottola. Non la vedevo più, né a monte, né a valle. Sparita!
Chiamai monsieur Emile: “ ho perso il galleggiante! ” Lui posò la sua canna a terra e venne da me. Gli passai la mia canna che sollevò prontamente indietreggiando.
“ tieni Bebert, senti “, me la riconsegnò.
E sentii la canna pesante che si piegava; non capendo cercai di sollevarla e fu allora che lo vidi!
Un pesce, per me enorme, luccicante sott’acqua che guizzava da un punto all’altro della buca, ed io a rincorrerlo, mentre monsieur Emile mi osservava. Percepii di iniziare a tremare. Fu allora che monsieur Emile mi disse: “Indietreggia lentamente!”
Indietreggiai, camminando con gli scarponcini in acqua.
Poi, non so come, sul greto, qualcosa di bellissimo, saltava, e si dibatteva.
Con calma, monsieur Emile estrasse dall’epuisette ( mi spiegò poi) la matraque à poissons e…..tac, un solo colpo sulla testa e il pesce non si dibatteva più.
Sarebbe stata la mia condanna: Dal MORBO, da allora, e di anni ne sono trascorsi tanti, tranne qualche sporadica sospensione, vedi pubertà e prime ragazzine, non sono mai più guarito.
E’ quanto mi auguro: contagiare un giorno mio nipotino!
Roberto Salvadori
© PIPAM.org