USA - Alaska 1999 (Prima Parte)

28/05/99
di Angelo Piller, foto A.Piller e P. di Lernia

Oltre l'avventura

In acqua fino alla pancia.

Tutto ebbe inizio nell'aprile dell'anno scorso, quando un tizio di nome Eddy chiese, tramite il forum di Pipam, informazioni sulla presenza di orsi e loro comportamento in Alaska.
In seguito conobbi Eddy al di fuori della sfera virtuale, ed ebbi l'occasione di ammirare il filmato girato dal suo gruppo in Alaska. Ci misi poco a convincermi ed a convincere altri tre balordi moschisti incalliti a seguirmi in quella che sarebbe diventata la più pazza avventura alieutica da noi mai vissuta: la pesca delle steelhead presso il Sitkoh River.
Da sempre pescatore "fai da te", per la prima volta contattai un organizzatore professionista: Claudio Taggini della AWA. Dopo mesi di preparazione ed infiniti scambi di mail, la data fatidica si avvicinava e sembrava che tutto filasse liscio.
Un mese prima della nostra partenza però, il viaggio venne messo in discussione.

Infatti, Claudio ci comunicò che il lago non si stava sciogliendo e che l’inverno era stato rigido, consigliandoci quindi di andare a pescare presso un altro fiume munito di lodge, ma anche di dozzine di pescatori pronti ad assaltare le acque insieme con noi.

Decidemmo di rischiare fino all’ultimo e proprio pochi giorni prima della partenza giunse la notizia che metà lago si era sghiacciato, permettendo quindi l’atterraggio dell’idrovolante.
Il programma prevedeva:
"soggiorno nulla compreso" di otto giorni presso una cabin sulle rive del Sitkoh Lake. Per chi non lo sapesse, con "cabin" gli americani intendono un piccolo rifugio di legno, privo di qualsiasi comodità.
Infatti, oltre a quattro assi, un tavolo, un armadietto e un numero di playboy, la cabin conteneva solo la piccola stufa a legna.
L'attrezzatura necessaria, tra cui un fornelletto a gas per cucinare, il motore della barca, piatti, pentole, lampade, ci fu fornita dalla AWA, tutto eccetto le ballerine russe che Claudio ci aveva tanto paventato.
Per andare a pesca avremmo usato una barca munita di motore. Questa ci avrebbe trasportato dalla parte opposta del lago dove nasceva il fiume che cinque miglia più a valle si sarebbe gettato in quel mare, da cui sarebbero dovute risalire le steelhead.
Il gruppo era composto da quattro persone:

Raffaele, tutto per il reparto bagno e arredo bagno
Domenico, gastronomo e salumiere.
Paolo, creativo e pubblicitario.
Il sottoscritto, video novità, hard, bondage, enema, squirting e tutto ciò che nemmeno potreste immaginare su VHS.
Sembravamo fatti apposta per l’Alaska.

Subito dopo l'atterraggio.

Dopo diverse disavventure aeroportuali giungemmo così finalmente a Sitka, simpatico paesino che ci diede il benvenuto con una bella pioggia a catinelle.
Andammo subito a fare i permessi di pesca, quindi ci fiondammo al supermercato onde acquistare le provviste necessarie per la sopravvivenza. Spendemmo circa seicento mila per prodotti vari tra cui quaranta litri d'acqua (che poi scoprimmo essere appena sufficienti), un'infinità di pane, latte, carne, frutta, insalata, birra, coca, whisky, fino alle cose più inutili come i brodini vari ed altre amenità che ovviamente poi avremmo avanzato.
Cenammo presso un ristorantino la cui specialità era il piattone "aragosta/costata", ma ciò che più fece colpo fu la cameriera, una ragazza dotata di un sorriso e di un fisico sfolgorante.
Ci aspettavano otto giorni di stretta convivenza in una baracca, tagliati fuori dal mondo...e da qualsiasi presenza femminile.
La sera ce ne andammo a dormire presso una confortevole abitazione affittataci dal buon Claudio ed il mattino eravamo freschi e pronti per la grande avventura.


Primo giorno:

Atterrammo verso le dieci sul lago dell'isola. Come annunciato metà lago rimaneva ghiacciato, ma questo non ci spaventò, l'entusiasmo era al massimo.

Costatammo subito che "il fortino" era stato conquistato dagli indiani (a quanto pare abusivi), che non appena ci videro arrivare sbaraccarono. Ragazzi cordiali, prima di andarsene ci lasciarono oltre a del pesce appena pescato in mare, un denso e nauseabondo puzzo di aringa affumicata che permeava l'interno della cabin. Non furono necessarie parole, ci mettemmo subito coscienziosamente a lavare e pulire la cabin e dopo più di un ora non era cambiato molto, ma almeno ci eravamo abituati al puzzo.

Il "bagno" era situato a dieci metri dalla cabin, una sorta di mini-capanna di cui non posso dire nulla perché avendo visto la faccia di Paolo dopo la sua perlustrazione, lo cancellai dalla vacanza. L’assenza del bagno non rappresentava certo un problema, tranne forse quando qualcuno si svegliava nel pieno della notte. Lascio immaginare quanto ci si allontanasse dalla cabin durante l'oscurità con l’incubo di un incontro con l’orso o con chi sa quale altro animale.

Tagliata la legna (Raffaele mise subito in risalto i suoi cromosomi da tagliaboschi delle foreste del nord) ed accesa la stufa, spinti dalla febbre salpammo finalmente alla conquista del lago.
Ovviamente l'ebbe vinta il lago: quando incontrammo il ghiaccio, a metà percorso, fummo costretti ad abbandonare l'imbarcazione. Scesi sulla terraferma ci sparammo non so quanti chilometri a piedi in mezzo ad una foresta che definire fitta ed irta di ostacoli è poca cosa.
Arrivammo infine nella zona in cui nasceva il Sitkoh River.

Il lago nel punto in cui inizia a formarsi il Sitkoh River.

Il rosso fondale conferiva al fiume un'atmosfera unica, gli innumerevoli tronchi e le carcasse di quelli che un tempo dovevano essere alberi maestosi non facevano che aumentare la sensazione di inviolabilità che purtroppo nel nostro paese non si prova più da tempo.
Scendemmo lungo il grosso torrente, ma non fummo in grado di scorgere alcun pesce. Poi, improvvisamente, riuscii ad intravedere qualche metro davanti al naso la sagoma di una grossa trota. Una steelhead! Avrà misurato un metro circa e se ne stava beatamente ferma in meno di cinquanta centimetri di profondità.
Non ci fu niente da fare, la trota non degnò i miei artificiali di uno sguardo, scomparendo poi in corrente. Il ritorno fu drammatico, con le gambe distrutte arrivammo alla nostra barchetta e mezzora più tardi alla cabin.

Capimmo subito che il rientro sarebbe stato sempre traumatico. Infatti, la stufa, anche se ben riempita, scaldava per non più di cinque ore e quindi la cabin aveva tutto il tempo della nostra assenza per raffreddarsi. Ma la cosa non finì qui, perché una volta accesa la stufa, in un attimo si passava da cinque a trecento gradi, cosa ottima per far asciugare gli indumenti appesi alla ragnatela di spago che invadeva (grazie ai chiodi sparsi) pressoché tutta la zona alta della cabin, ma sicuramente meno gradevole per noi occupanti costretti a "girare" seminudi e grondanti di sudore.


Secondo giorno:

Entusiasti, alle cinque del mattino eravamo in piedi, pronti a tutto.
Ed infatti realizzammo il miracolo: a colpi di remi di braccia e di gambe riuscimmo a creare una spaccatura nel ghiaccio e ad arrivare dall'altra parte del lago vittoriosi e felici. Ma qui commettemmo l'errore più grosso dell'intera vacanza: non capire che i miracoli difficilmente si ripetono due volte nella stessa giornata.
Mollata la barca all'inizio del fiume, scendemmo a piedi per più di due ore di cammino, sprofondando sovente nei 50cm e passa di neve che quest'anno non si era ancora sciolta. Iniziammo a pescare l’acqua e quando le speranze cominciarono ad affievolirsi, presso una corrente cui nessuno avrebbe dato una cicca, il mio strike si immerse improvvisamente. Pensai al fondo, ma quando mi accorsi che avevo allamato qualcosa di vivo, capii. Fu la prima steelie agganciata, e fu una libidine. La recuperai cento metri più a valle, presso una pool che si sarebbe rivelata la migliore in assoluto, dopo diverse peripezie e salti e grazie alla collaborazione di Raffaele che mi aiutò con la canna quando dovetti letteralmente strisciare sotto un tronco che attraversava tutto il torrente. Si trattava di un pesce sui 70cm, niente di eccezionale per una steelie, ma le emozioni che una trota così è in grado di procurare non sono misurabili a centimetri.

La prima steelie.

Lo stesso giorno riuscii a catturarne un'altra ed a perderne una terza poco prima di salparla a riva.
I ragazzi furono più sfortunati, allamandone diverse, senza portarne a riva alcuna.
Poi le cose si sarebbero invertite.
Verso le 17.00 del pomeriggio smettemmo di pescare ed iniziammo la dura risalita. Arrivammo esausti due ore dopo nel luogo in cui avevamo "parcheggiato" l'imbarcazione e partimmo subito in direzione della nostra cabin.
Dopo nemmeno un chilometro lo spettacolo che ci accolse ci fece congelare il sangue nelle vene: non vi era più traccia del passaggio tra il ghiaccio che al mattino avevamo tanto faticosamente creato. Ci demmo da fare, cercando di spaccare ancora la lastra malefica, ma la sfortuna (o dabbenaggine) fu ancora con noi: per lo sforzo di aprirsi un varco nel ghiaccio che noi a prua sbriciolavamo in mille modi, il motore consumò tutta la benzina.
Eravamo quasi nella merda più completa e vi saremmo sprofondati totalmente quando, dopo avere percorso a piedi almeno altri due chilometri nella "jungla" ostile onde chiedere in prestito del carburante ai tre americani che abitavano nell'unica altra cabin dell'isolotto, tornati alla barca, constatammo che anche con l’aiuto del motore non ce l'avremmo fatta a creare un varco nel ghiaccio. Questo sembrava divenire sempre più spesso, man mano che diventava sera.
Ormai erano le 19.30 passate e tutti e quattro capimmo che il rischio di passare la notte sudati, senza coperte e riparo in piena Alaska, stava diventando una realtà.

E ci cagammo sotto.

La decisione fu presa all’istante: mollare la barca e camminare a piedi fino al nostro rifugio. Non avevamo scelta, partimmo velocemente in modo da non farci sorprendere dal buio prima di arrivare alla baita. Fu un’odissea vera e propria, certi tratti di bosco erano talmente fitti che per percorrere cento metri occorreva un quarto d’ora di "cammino" se non di più (uno di questi tratti fu soprannominato l’INFERNO, tanto ostico risultava al passaggio). Per non parlare delle spine che popolano l’interno di quei boschi. Qui, infatti, crescono delle pianticelle dallo stelo lungo e flessibile, una "mano" dal cielo quando stai per scivolare o sprofondare nella neve, questo è almeno quello che pensi prima di afferrarne una ed infilarti qualche dozzina di piccole spine nella carne. Gli americani le chiamano the Devil’s..., per noi erano semplicemente I DIAVOLI.

Ricordo ancora quella sera, mentre camminavamo disperati in fila indiana calpestando le orme del primo del gruppo onde evitare di sprofondare in qualche buca nascosta dalla neve, ricordo una voce straziata alle mie spalle affermare che a questo punto l’orso era l’ultimo dei problemi, anzi, forse non sarebbe stato che la liberazione.

Trovammo fortunosamente la cabin alle dieci passate, ormai era buio ed eravamo stravolti come non mai. Nessuno di noi quattro si dimenticherà mai questa giornata e di come abbiamo sfiorato la tragedia.


Terzo giorno:

Ci svegliammo intorno alle otto, con poco entusiasmo. L’unica cosa fattibile era quella di andare a recuperare la barca, sperando di riuscire a portarla al di qua del ghiaccio. In caso contrario sarebbe stata la fine della vacanza, saremmo tornati indietro ed avremmo steso qualcosa di rosso sulla spiaggia di fronte alla cabin in modo da attirare l’attenzione di qualche idrovolante di passaggio. Questo era l’unico modo di comunicazione prestabilita con il resto del mondo.

Occorreva ripercorrere di nuovo l’interno del bosco "Inferno" compreso.

Niente di meglio di un bel tazzone pieno di whisky per riprendersi.

Strada facendo, non fu difficile individuare insieme alle nostre tracce della sera precedente, le enormi orme di un grosso grizzly che doveva essere passato nottetempo.
Grazie al cielo riuscimmo, una volta raggiunta la barca, a creare un nuovo passaggio attraverso il ghiaccio, ancorammo poi la "rompighiaccio" nel punto in cui la crosta malefica terminava, ed andammo a piedi alla cabin degli americani onde restituire la benza. Tornati indietro salimmo sulla nostra piccola imbarcazione e facemmo rotta verso "casa", stanchi e bagnati.
(Fine Prima Parte)


Agelo Piller

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