USA - Alaska 1999 (Seconda Parte)

  28/05/99
di Angelo Piller, foto A.Piller e P. di Lernia

Oltre l'avventura


Domenico presso la super pool.
Quarto giorno:

Il quarto giorno fu il giorno del miracolo. Al mattino presto, quando mi recai in spiaggia, notai un enorme e pesante lastrone di ghiaccio muoversi lentamente verso la parte bassa del lago.
Salpammo speranzosi e difatti riuscimmo a trovare un varco nella maledetta crosta che i giorni passati ci aveva causato più di un problema.

Dopo la lunga discesa a piedi, arrivammo alla pool magica e ciò che vedemmo ci lasciò di stucco. Le steelie stavano decisamente risalendo, una dietro l’altra, qualcuna si fermava, ma la maggior parte non prendeva soste offrendoci uno spettacolo unico.

Vedere risalire questi pesci magnifici dal mare, ti fa provare le stesse emozioni che prova un baciapile napoletano mentre assiste alla liquefazione del sangue di S.Gennaro: pura esaltazione! Anzi, forse assistere alla risalita delle steelhead è ancora meglio perché sei sicuro che il trucco qui non c'è.

Successe il finimondo: quattro pazzi scappati dal manicomio non avrebbero dato miglior spettacolo. La pool era abbastanza lunga per pescarvi mediocremente in due, in quattro finimmo per fare un gran casino e basta: code intrecciate, pericolosissime ferrate a vuoto, imprecazioni e tanta agitazione. E intanto le steelie continuavano a salire... .

Raffaele si spostò a monte, presso la corrente in cui due giorni prima avevo incocciato la prima trota. Qui avrebbe fatto la conoscenza della sua prima steelhead. Io intanto riuscii ad allamare ed a recuperare la mia terza steelie della vacanza, poco sopra i settanta.

Nel frattempo Domenico, nella pool, ebbe un flirt con un pesce che superava decisamente gli ottanta centimetri. Quando hai in canna una trota simile non sai mai se spiccare i salti di gioia o se disperarti perché detto senza peli sulla lingua: "Mo' sono c...i tuoi". Infatti, per quanto nel Sitkoh River la scarsa portata d’acqua sia per il flier di vantaggio nella lotta contro il pesce, l’alto numero di rami, tronchi e rocce presenti, gioca del tutto a nostro sfavore. Fu così che dopo quasi un quarto d’ora di dura lotta, la steelhead, sfruttando la sporgenza di un sasso, opplà, si liberò e Domenico ci rimase male anche perché si trattava del suo primo pesce allamato. Comunque, a fine vacanza sarebbe stato il flier con più catture all'attivo.

La prima steelie di Paolo.

Paolo, invece, fu colui che riuscì ad allamare più trote di tutti. Purtroppo fu anche colui che ne perse più di chiunque altro, soprattutto appena dopo la ferrata. Quando lo vidi con la canna piegata, non seppi dire se era più teso lui o il finale che trattenva la grossa trota.

Verso le 17.00 iniziammo a scarpinare e tre ore dopo ci trovavamo in mutande nella nostra casetta felici e contenti a raccontarci e rinarrarci entusiasti la giornata di pesca, pronti a gustare una nuova succulenta cena preparata dall’inesauribile gastronomo. Poco dopo crollammo sfiniti nelle nostre cuccette, e feci appena in tempo a sentire il rumore di pesanti gocce che si divertivano a tamburellare sul tetto della nostra baracca.


Quinto giorno:

Uscimmo dalle brande che stava ancora piovendo pesantemente e la cosa non ci piacque per niente. Fuori, il livello del lago si era alzato parecchio.

Quando arrivammo al fiume i nostri sospetti divennero realtà. Il torrente scorreva in piena e l’acqua era più che velata. Tutto questo avrebbe reso la pesca più difficile e difatti fu l’unico giorno in cui non ebbi nemmeno un attacco, mentre solo Domenico riuscì a catturare una steelhead. Questa volta ci spostammo parecchio a valle ed arrivammo a poche centinaia di metri dal punto in cui il fiume sfociava in mare.

Per me fu una giornata drammatica poiché al mattino, dopo più di un ora di cammino alle spalle, un maledetto ramo mi squarciò i waders in neoprene dieci centimetri sopra la caviglia del piede destro. Pescai tutto il giorno con le ghette che ricoprivano alla meglio lo squarcio e con qualche litro d’acqua che si scaldava all’interno della mia gamba destra. Ogni volta che mi spostavo provavo la fastidiosissima sensazione dell’acqua ormai tiepida che se ne usciva per far spazio a quella gelida. Si trattava del secondo paio di stivali, quelli in gore-tex infatti, resistettero solamente due giorni.


Sesto giorno:

Il sesto giorno l’acqua del fiume si era ripulita completamente, anche se rimaneva ancora un po’ alta. Dopo avere pescato senza grosso successo nella pool "magica" in cui sia Paolo sia Domenico riuscirono nel pomeriggio a perdere diverse steelie (ma anche a catturarne almeno una a testa), mi spostai con Raffaele verso monte in modo da vedere fin dove nuotavano questi pesci fantastici.

Notammo subito che più si risaliva e più il numero delle steelie avvistate calava.

Ad un certo punto arrivammo presso un tratto in cui il torrente formava una grossa buca. In testa, riuscii a notare prima una, poi due steelhead di tutto rispetto. Stimai quella più grossa sul metro, e mi diedi da fare con un’imitazione di uovo di salmone. Dopo diversi lanci successe il fattaccio, un incubo che mi perseguita ancora oggi: la grossa trota prese in bocca la mia mosca ed io sbagliai la ferrata. Sarà stata l’emozione, o chissà quale altro malefico influsso, ma il mio ovetto finì attaccato ad un ramo alle mie spalle. Toccava al Raffa, e qui accadde una di quelle cose che rendono la pesca a mosca unica in quanto imprevedibile.

Dopo aver lanciato la mosca e strike inicator a monte delle due trote, notammo che la steelie valutata più di "ottanta" si staccò dal fondo. Pensai che il lancio l’avesse spaventata, ma non fu così. La trota, a mo' di temolo, cioè indietreggiando, salì e si "succhiò " lo strike come una caramella. Un attimo di incredulità poi Raffaele ferrò d’istinto e non gliene faccio una colpa perché l’avrei fatto pure io. Il filo passò attraverso la bocca della steelhead andando a far conficcare l’ovetto, per quanto incredibile possa sembrare, all’interno della bocca del pesce. Questo fece finta di nulla per almeno cinque minuti, poi si gettò a valle della buca nel raschio sottostante. Mi raccomandai con Raffaele di non forzarla troppo, anche perché in fondo noi tutti si pescava (imprudentemente) con un finale dello 0,28. Come se il pescione mi avesse sentito, passò al raschio più in basso e poi ancora più giù. Io mollai la mia canna e mi fiondai a valle superando di poco la trota. Intanto Raffa le aveva concesso tutta la coda più una cinquantina di metri di backing.

Quando notai in lei i primi segni d’affaticamento dovuti alla dura lotta, ne approfittai per avvicinarmi alle sue "spalle". Qui, munito di guanti, feci presa sulla coda, ma sbagliai. Al secondo tentativo, con le due mani serrate intorno alla grossa coda, fui sballottato a destra ed a sinistra, tanto che per poco non persi l’equilibrio.

Riuscii ad abbracciare il pesce ed urlai a Raffaele che si sbrigasse perché temevo mi scappasse. Dopo le foto di rito e la misurazione, lasciammo andare la trota che misurava ben 85 centimetri e che sparì in un attimo nella corrente.

Raffaele con la steelhead che ha bollato sullo strike-i.

Settimo giorno:

L’acqua era tornata a livelli normali e le steelhead in risalita sembravano più numerose. Ciò nonostante i pesci recuperati furono pochi: la capacità di slamarsi delle steelie ci stupì parecchio, e più che spesso ci trovavamo a limare le punte delle nostre mosche. Nonostante le difficoltà i ragazzi riuscirono a prendere un paio di steelhead di tutto rispetto, in particolar modo Domenico, anche se i 90 centimetri furono solamente sfiorati.

Verso sera, risalendo il fiume, decisi di provare nella parte più alta. Solitamente si pescava sempre in coppia, ma questa volta Raffaele, stanco e bagnato (pescavamo entrambi con stivali che ormai si erano arresi da tempo e con all’interno i piedi avvolti in sacchetti di plastica), preferì risalire insieme agli altri. Io commisi l’errore di dire loro di proseguire pure, che poi ci saremmo trovati all’imbarcazione.

Risalendo con calma, individuai una stupenda steelhead, posta quaranta centimetri sotto la superficie di un magnifico correntino. Un grosso albero rendeva il lancio particolarmente difficile, e difatti dovetti fare i salti mortali per eseguirne uno corretto. Dalla mia postazione non ero in grado di vedere la steelie, ragion per cui mi basavo sullo strike-indicator in pasta arancio fluorescente. Questo si fermò improvvisamente e lesta fu la ferrata.

La canna iniziò a vibrare e l’adrenalina salì alle stelle. Quando mi accorsi di avere in canna tutto tranne che una steelhead di novanta centimetri, iniziai a forzare e recuperai un’iridea sul chilo.

Ripetei il lancio, e accadde tutto di nuovo. Praticamente catturai una quindicina di pesci tra iridee, cutthroat e qualche salmerino. Tutti pesci dalla livrea stupenda. Ma la steelhead non ne voleva sapere. Continuai per parecchio tempo, poi mi resi conto che gli altri mi stavano aspettando ad un ora di cammino, e soprattutto, capii di essere solo nel bel mezzo di un’isola semi disabitata dell’Alaska.

Iniziai a camminare seguendo le orme nella neve e ad un certo punto mi trovai in mezzo al bosco senza più tracce da seguire. Subito pensai ad una delle scene del film "L’urlo dell’odio" in cui alcuni personaggi si "perdono" nel bel mezzo dell’Alaska: "Chi si perde muore di vergogna…"dicevano nel film. Dopo alcuni secondi di panico, urla e schiamazzi da manicomio onde impressionare l’eventuale orso, cercai di mantenere la calma, tornai sui miei passi e riuscii a trovare il fiume e poco dopo il sentiero originale.

Quando i ragazzi mi videro arrivare si erano preparati per farmi il "mazzo" considerato l’enorme ritardo, ma capirono subito che ero già abbastanza sudato quanto sconvolto e non dissero nulla.

Ci sono delle regole non scritte che è meglio non trasgredire in Alaska. Una di queste è quella di non rimanere mai da solo.


Ottavo giorno:

L’ultimo giorno di pesca, Raffaele ed il sottoscritto, pescammo nella parte alta del fiume. Subito all’inizio riuscii ad attaccare una steelie, ma questa, dopo nemmeno due secondi si slamò, lasciandomi come un baccalà.

Raffaele ne agganciò una presso una profonda pozza. Si trattava di uno dei punti più favorevoli per recuperare una steelhead; al di fuori della pozza l’acqua era troppo bassa per permettere alla trota una fuga agevole. Dopo pochi minuti, infatti, un pesce da ottanta centimetri veniva "trattenuto" dalla mia Canon.

Steelhead presa nella pozza laterale.

Proseguimmo risalendo, ma le steelhead individuate sembravano interessate a "fregare" e nulla più, tanto che dopo uno scarto improvviso e mia violenta ferrata, mi trovai in canna un treno rampinato sul dorso. Ovviamente ci fu ben poco da fare, la trota si divertì per più di cinque minuti, poi decise che i giochi erano finiti e spaccò tutto. Terminammo la giornata risalendo, godendoci per l’ultima volta lo spettacolo di un fiume ancora inviolato, dai pesci meravigliosi.

Il giorno dopo ci vennero a prendere con l’idrovolante. Dopo l’atterraggio di fronte alla nostra spiaggia, i nuovi occupanti della cabin scesero alla Highlander dall’aereo pronti a conquistare il mondo, un po’ come noi qualche giorno prima.

L’unica differenza, l’età media, un po’ più alta rispetto alla nostra. Ricordo ancora ciò che mi disse con un ghigno malefico Raffaele indicandomi il più anziano del nuovo gruppo: "Quello non dura un giorno!"

Raffaele aveva esagerato: in seguito venimmo a sapere che il tipo, dopo solo un’ora e mezzo di cammino era sprofondato in una qualche buca, prendendosi una storta che gli impedì non solo di pescare, ma persino di vedere una steelhead, standosene tutte le giornate a far passare il tempo negli immensi saloni della cabin.

La pesca a mosca non è uno sport per signorine, questo l’ho appurato da anni, ma la pesca a mosca qui sul Sitkoh River pretende qualche sacrificio in più del normale.

Vorrei aggiungere che non ho quasi mai menzionato le numerose catture di cutthroat, salmerini ed iridee, presenti nel torrente e che hanno comunque sempre allietato le nostre giornate di pesca, anche se l’obiettivo rimaneva ovviamente la steelhead.

Alive-Sopravvissuti!

Così finisce la nostra avventura in Alaska.

Immersi ed isolati nella wilderness più selvaggia, abbiamo vissuto dieci giorni intensi, di emozioni uniche, tanto che ancora oggi e chissà per quanto tempo ancora, quando siamo tutti e quattro insieme e qualcuno ci chiede come è andata in Alaska, ci guardiamo negli occhi e sorridiamo, complici di un’esperienza fantastica e difficilmente comunicabile con le sole parole.

Fine


Un ringraziamento particolare ad Eddy ed a Carlo S.L. per tutti i consigli e gli artificiali.


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Angelo Piller


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